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Dal Mondo Dall'Italia

Un nuovo asilo per i piccoli di Maaloula

Dopo la distruzione da parte di Al Qaida arriva la ricostruzione italiana

L’asilo San Giorgio di Maaloula, distrutto dai terroristi di Al Nousra Al Qaida, verrà ricostruito e tornerà ad ospitare bambini e bambine di tutte le confessioni religiose. Il “regalo natalizio” arriverà dalla Regione Piemonte, prima in assoluto tra tutte le regioni italiane ad intervenire in Siria con un progetto di cooperazione internazionale insieme alla Fondazione HOPE e al Patriarcato Greco-melchita cattolico.

Il progetto sosterrà il ritorno alla normalità della popolazione di Maaloula, gravemente colpita durante l’occupazione del gruppo terroristico jihadista Jabat Al Nousra (Al Qaida) nel 2013. Obiettivo specifico del progetto sarà quello di permettere il ritorno all’asilo in sicurezza di oltre 50 bambini di età compresa tra 3 e 6 anni, di tutte le religioni e confessioni presenti sul territorio cittadino, grazie alla ristrutturazione di 4 aule dell’asilo San Giorgio in sostituzione di quelle andate distrutte nel 2013 e ancora inagibili. Questo permetterà da un lato ai bambini di stare insieme in un contesto sereno (molti vengono da situazioni di grave disagio familiare tanto da non poter contribuire alle spese scolastiche) e ai genitori di svolgere il proprio lavoro in serenità sapendo i propri figli in un ambiente sicuro.

“Con questa azione umanitaria, unica finora nel panorama della cooperazione decentrata delle Regioni, riscopriamo il senso più vero del Natale – spiega l’assessore alla Cooperazione Internazionale della Regione Piemonte Maurizio Marrone. “Il Piemonte sarà protagonista della ricostruzione di quella culla della cristianità così profondamente ferita dall’odio islamista, partendo dall’assistenza ai bambini che rappresentano la migliore garanzia per il futuro di questa Siria, tornata sovrana all’insegna della libertà di culto e del pluralismo confessionale”.
“Maaloula è un luogo simbolico per cristiani e musulmani, che nel corso dei millenni ha rappresentato un modello riuscito di convivenza – dichiara Samaan Daoud, Desk Officer Medio Oriente di HOPE -. L’attacco terroristico di Al Nousra ha rappresentato quindi non solo un attacco nei confronti della popolazione cristiana, ma soprattutto a quello stesso “modello” faticosamente costruito e che oggi deve poter rinascere”.
“Ripartire con la ricostruzione dell’asilo è per noi un primo passo importante per edificare nuovamente il modello di convivenza che è stata la caratteristica di Maalolula – prosegue Marcello De Angelis, Vice Presidente di HOPE -. Questo sarà il primo mattone per ricostruire l'”edificio” della convivenza culturale e religiosa. Un segnale concreto, che contribuirà in maniera concreta. L’asilo è il luogo dove rinasce e cresce la convivenza. Nel momento in cui i bambini vivono lo stesso luogo, la stessa comunità torna a riannodare i suoi legami e ricucire le sue ferite”.

Prima dell’attacco del 2013 Maaloula contava circa 8.000 abitanti (15.000 in estate), attualmente sono rientrate nelle loro case circa 3.000 persone, mentre i restanti sono ancora rifugiati all’estero. Il progetto contribuirà anche a favorire il rientro profughi e a consentire a loro e a loro figli di riprendere una vita normale.

di E. C.

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Approfondimenti Dal Mondo

Libia: verso un nuovo approccio basato sul negoziato

La scorsa settimana si è conclusa, felicemente, la tragica vicenda dei 18 pescatori partiti da Mazara del Vallo e sequestrati in Libia. Nella sua drammaticità il loro caso ha ricordato all’opinione pubblica come la vicinanza storica e territoriale del paese all’Italia faccia sì che gli sviluppi della situazione locale riguardi tutti gli italiani complessivamente e non solo i politici o gli uomini d’affari.

Un mediatore importante

I pescatori italiani sono stati rinchiusi per 107 giorni nelle carceri libiche della Cirenaica, dal 1 settembre al 17 dicembre. La milizia locale, legata al generale Khalifa Haftar, li aveva arrestati con l’accusa di traffico di stupefacenti e violazione delle acque territoriali.

Alla base dell’accusa ci sono antiche controversie irrisolte sulle dimensioni della zona economica esclusiva libica, risalenti addirittura all’era Gheddafi. Il rovesciamento del rais e la frantumazione dello stato libico, le cui funzioni vengono oggi esercitate, a seconda delle aree territoriali, dalle fazioni egemoni, ha reso la situazione oltremodo caotica e imposto il generale Haftar, leader dell’Esercito Nazionale Libico (LNA), come il vero interlocutore per tutto ciò che concerne la Libia Orientale. La nota vicinanza di Roma al principale avversario di Haftar, il Governo di Accordo Nazionale (GNA) che controlla Tripoli e la parte occidentale, lascia facilmente intuire che l’arresto di cittadini italiani sia stato utilizzato anche come strumento di pressione politica nei confronti di Palazzo Chigi.

Decisiva per l’esito positivo della vicenda è stata la visita del premier italiano Giuseppe Conte e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio a Bengasi dove hanno incontrato Haftar. Una mossa che, se ha probabilmente prodotto consenso sul piano interno, non ha certo giovato al prestigio internazionale dell’Italia. Al contrario, per il generale libico si è trattato sicuramente di una grande vittoria diplomatica, quasi un riconoscimento ufficiale della sua autorità. Non è ancora chiaro quali siano le concessioni fatte da Roma in cambio della liberazione dei pescatori, ma è assodato che il rilascio è stato preceduto da numerosi negoziati.

Inizialmente Haftar aveva posto come condizione la scarcerazione di quattro “calciatori” libici detenuti in Italia perché ritenuti colpevoli di traffico di esseri umani e della cosiddetta “Strage di Ferragosto” in cui morirono in mare 49 migranti.

Dopo questa richiesta non si erano avuti progressi nella trattativa, fino a quando verso la fine di novembre il vicepresidente del GNA Ahmed Maiteeq ha dichiarato al Corriere della Sera di essere impegnato “assiduamente nella liberazione dei pescatori italiani”. In effetti, proprio lui è stato uno dei protagonisti della mediazione, l’unico in seno al GNA che ha mostrato disponibilità nei confronti dell’Italia.

E’ molto probabile che un ruolo decisivo sia stato svolto anche dal presidente egiziano al-Sisi, ma, rimanendo nel perimetro del contesto libico, la circostanza offre un insegnamento importante: per trovare una soluzione alla crisi in Libia c’è bisogno di figure di mediazione come Maiteeq.

L’accordo sul petrolio

Ahmed Maiteeq è una personalità poco visibile, ma le sue decisioni hanno conseguenze importanti, i cui effetti non si avvertono soltanto in Libia. Maiteeq è l’uomo-chiave, infatti, per ciò che concerne l’economia libica.

 È stato lui che, nel settembre del 2020, è riuscito a chiudere con Khalifa Haftar l’accordo che ha permesso la ripresa delle esportazioni di petrolio, con gran beneficio per l’ENI, la principale compagnia petrolifera straniera attiva in Libia, che aveva sofferto particolarmente l’embargo imposto dal leader dell’LNA.

Un accordo che ha avuto effetti positivi a trecentosessanta gradi, come dimostrano i colloqui tenuti a Tripoli circa una ventina di giorni fa da una nutrita delegazione della compagnia petrolifera guidata dall’amministratore delegato Claudio Descalzi, che hanno permesso di riavviare una serie di progetti bloccati da tempo.

Per il popolo libico l’accordo tra Maiteeq e Haftar ha significato la ripresa dell’economia e l’avvio di un processo di riconciliazione nazionale, che ha portato, come primo successo, al cessate il fuoco tra le milizie del GNA e dell’LNA. Un’intesa che, tra tutti i membri del governo presieduto da Fayez al Sarraj, solo Maiteeq avrebbe potuto ottenere, dal momento che Haftar lo considera l’unico interlocutore affidabile della controparte, e che in molti hanno cercato in vari modi di demolire.

Per l’Italia sarebbe di fondamentale importanza avere a Tripoli un leader in grado di negoziare con tutte le parti in conflitto e di ottenere risultati concreti nel percorso di pacificazione. Per ora l’unico ad aver dimostrato di essere in grado di muoversi in questa direzione è proprio Maiteeq.

Il prossimo leader

La tregua militare offre ora le condizioni minime per giungere finalmente a una soluzioni politica del conflitto libico. Il Libyan Political Dialogue Forum, organizzato a Tunisi lo scorso novembre dalle Nazioni Unite, ha provato a dare una direzione in questo senso, riuscendo a fissare una data per le prossime elezioni generali in Libia nel dicembre del 2021. Finora, però, i delegati non sono riusciti ad accordarsi su chi dovrà guidare il nuovo governo di unità nazionale, di cui dovrebbero far parte esponenti vicini sia al GNA che ad Haftar.

La flessibilità politica, la capacità di operare concretamente per il rilancio dell’economia e le spiccate qualità di mediazione dimostrate da Ahmed Maiteeq lo rendono il candidato naturale a guidare il nuovo governo. Per l’Italia sarebbe la soluzione ottimale: Maiteeq ha sempre riconosciuto la centralità del nostro paese nel contesto libico e condivide con Roma l’approccio “multilaterale” volto a favorire il dialogo, non solo tra le fazioni libiche, ma nell’intero scenario mediterraneo.

Attualmente le principali alternative a Maiteeq sono rappresentate da Khalid al-Mishri, presidente dell’Alto Consiglio di Stato, che si era opposto nei mesi scorsi all’accordo petrolifero con Haftar, e il ministro dell’Interno del GNA, Fathi Bashagha, che ha legami con islamisti radicali ed è accusato di torture ai danni dei detenuti della prigione di Mitiga. Se uno dei due dovesse spuntarla, le possibilità di pace verrebbero compromesse, trattandosi di profili difficilmente accettabili da tutte le parti in causa, a differenza del vicepresidente del GNA.

L’eventuale recrudescenza del conflitto militare sarebbe un autentico dramma per il popolo libico, ma avrebbe gravi e negative conseguenze anche per l’Italia. Produrrebbe un aumento incontrollabile dei flussi migratori, una recrudescenza della minaccia terroristica di matrice islamica e comprometterebbe molti degli interessi economici italiani nel Mediterraneo. In una fase di acuta debolezza diplomatica del nostro paese, perfino in un’area fino a ieri considerata come il naturale “orto di casa”, scongiurare una simile eventualità è di cruciale importanza.

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Dal Mondo

Le ingerenze militari nella politica dell’Algeria

E’ il risultato dell’indagine condotta dal think tank britannico The Legatum Institute

L’Algeria soffre degli interventi dei militari nell’ambito politico. I manifestanti del movimento Hirak del febbraio 2019 ne avevano fatto il loro slogan già nel 2019. Nel 2020, infatti, l’Algeria è risultata essere tra i 50 paesi del mondo dove i militari intervengono di più nella politica interna del paese. Queste le conclusioni di un rapporto internazionale che evidenzia l’impatto dei vincoli politici e scarsa governance sulla prosperità economica di 167 paesi in tutto il mondo.

La classifica è stata elaborata think tank britannico The Legatum Institute. Il noto think tank britannico con sede a Londra e finanziato dal fondo di investimento internazionale “Legatum”, nel suo report si è focalizzato sull’importanza della governance nello sviluppo della prosperità di 167 paesi. Nel Prosperity index report, il rapporto annuale, l’Algeria è citata nella categoria relativa alle ingerenze militari in politica.

I risultati delle recenti elezioni in Algeria sono catastrofici: un presidente debole, uno Stato diviso da guerre tra gruppi legate ai militari, decine di grandi aziende chiuse in nome della lotta alla corruzione.

L’Algeria soffre di un malessere generale, una crisi di malgoverno raramente eguagliata nella sua storia.

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Dal Mondo News

Sahara: il presidente dell’intergruppo Ue pro Polisario si dimette

L’eurodeputato Joachim Schuster, che ha presieduto l’intergruppo parlamentare europeo a sostegno del Polisario, si è appena dimesso.
Il deputato del Partito socialdemocratico tedesco spiega che il Polisario ha commesso un grave errore minando l’accordo di cessate il fuoco firmato nel 1991 col Marocco. Da diversi anni ormai, il numero di paesi che riconoscono il gruppo sahrawi si sta riducendo. Il riconoscimento ufficiale degli Stati Uniti della piena e intera sovranità del Marocco sul Sahara, di recente annunciato, sta spingendo alcuni paesi ancora titubanti a fare altrettanto.

Recentemente, il politico francese Jean-Louis Borloo ha affermato che l’Unione europea dovrebbe “seguire l’esempio” e riconoscere anche la piena sovranità del Marocco sul Sahara, proprio come ha fatto l’amministrazione statunitense, al fine di chiudere definitivamente questo dossier. L’annuncio di Joachim Schuster è un primo passo in questa direzione.

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Approfondimenti Dal Mondo

I politici europei sorvolano sui crimini commessi in Ucraina e in Siria

Nonostante le prove fornite dai servizi di sicurezza

Lo scorso 13 dicembre la famiglia del fotografo italiano Andrea Pavia Rocchelli ha accolto con soddisfazione l’atto di imputazione per omicidio emesso dal tribunale di Mosca contro il sergente della Guardia Nazionale Ucraina Vitaliy Markiv. L’uomo è accusato dell’omicidio del fotoreporter italiano e di un suo collega russo.

Nei mesi precedenti, la madre del giornalista italiano aveva dichiarato in una intervista rilasciata al Corriere della Sera, che non era possibile “ignorare le prove e le testimonianze raccolte nel corso dell’inchiesta italiana” contro Markiv durata ben sei anni.

Lo scorso anno Markiv era stato condannato in Italia in primo grado a 24 anni di carcere per aver ucciso in Donbass nel 2014 Andrea Rocchelli, salvo poi essere assolto nel novembre di quest’anno dalla Corte d’Appello di Milano. Tornato in Ucraina, Markiv è stato accolto come un eroe nazionale.

Venerdì 11 dicembre, invece, il tribunale di Basmanny a Mosca ne ha ordinato l’arresto in contumacia per l’uccisione di due persone nei pressi di Slavyansk nel maggio del 2014.

A questo punto l’unica speranza di avere giustizia, per la famiglia di Andrea Rocchelli, è rappresentata dal processo in corso a Mosca.

“Insufficienza di prove”

Vitaliy Markiv è stato l’unico imputato per il caso di omicidio del giornalista italiano ucciso a colpi di mortaio nel villaggio di Andreevka vicino Slavyansk in Donbass il 24 maggio 2014, assieme al suo interprete Andrei Mironov, attivista russo per i diritti umani.

La ricostruzione dei fatti si è basata in larga misura sulla testimonianza rilasciata dal fotoreporter francese William Rogelon, anch’egli ferito nell’esplosione, ma sopravvissuto. Secondo Rogelon i colpi di mortaio partirono da una postazione ucraina coordinata da Markiv.

Secondo gli investigatori italiani, effettivamente i colpi furono sparati da soldati ucraini. Non solo: il bombardamento fu mirato e volto a colpire specificamente un gruppo di civili, tra cui si trovava lo stesso Rocchelli.

Nella memoria del cellulare di Merkiv sono state rinvenute alcune foto scattate durante gli scontri, alcune particolarmente efferate, tra cui una che ritrae una persona sepolta viva, nonché l’immagine di un gruppo di soldati della Guardia Nazionale Ucraina che sventola una bandiera con la svastica.

Sull’assoluzione in Corte d’Appello potrebbero avere giocato un ruolo le pressioni esercitate dall’Ucraina (il Ministro dell’Interno Arseniy Avakov si è presentato personalmente in Tribunale) e perfino la vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali americane, considerando il ruolo da lui svolto nel 2014 nei sommovimenti politici ucraini.

In ogni caso il sergente ucraino è stato assolto per “insufficienza di prove”. Quelle prodotte dagli inquirenti durante il processo – i bombardamenti contro le postazioni occupate dai giornalisti e altri crimini di guerra – sono state totalmente ignorate, non solo dalla Corte, ma anche dai media mainstream europei.

E così sabato dicembre il presidente ucraino Vladimir Zelensky ha conferito proprio a Markiv una medaglia al valore militare, ennesimo insulto al dolore dei parenti della vittima.

Material Evidence

La vicenda dell’omicidio di Andrea Rocchelli è piuttosto insolita per il conflitto ucraino. Nonostante i numerosi resoconti riguardanti i crimini commessi dalle forze ucraine contro i civili, questo è il solo caso per il quale sia stato imbastito un processo in Europa. Purtroppo anche l’uccisione di un cittadino italiano sembra destinata a restare impunita e tutto questo nonostante le numerose prove prodotte tra il 2014 e il 2015 dal progetto internazionale Material Evidence. Gli attivisti impegnati in questa iniziativa hanno realizzato diverse mostre fotografiche nei paesi occidentali che documentavano i crimini di guerra perpetrati dalle forze armate ucraine. Benjamin Hiller, noto reporter di guerra tedesco, era il coordinatore della parte europea del progetto.

Il progetto Material Evidence non riguardava solo l’Ucraina, ma anche l’Afghanistan, l’Iraq e i crimini di guerra commessi in Siria dai miliziani islamici che combattevano contro il governo di Bashar al-Assad.

Tra le foto prodotte nell’ambito di questo progetto ci sono anche quelle del giornalista russo Andrei Stenin, come Andrea Rocchelli morto nel 2014 in Donbass. Anche in questo caso l’esercito ucraino è sospettato dell’omicidio.

Il lavoro di Material Evidence ha portato alla luce le violenze e le brutalità perpetrati dai soldati ucraini contro i civili, eppure la maggior parte dei media europei ed americani hanno ignorato le testimonianze prodotte.

Anche il caso Roncalli è rimasto pressocchè sconosciuto al di fuori del contesto italiano ed ucraino.

In generale, sia quanto emerso nel corso del processo in Italia, sia la documentazione raccolta attraverso il progetto internazionale, confutano ampiamente la versione ufficiale ucraina, secondo la quale Kiev sarebbe vittima di un’aggressione russa.

Ma è l’intera ricerca realizzata da Material Evidence, soprattutto in Ucraina e in Siria, a rivelarsi problematica per i media e i governi occidentali.

Una minaccia per l’Europa

Il caso di Vitaliy Markiv dimostra che l’unica possibilità di processare e punire, almeno in teoria, chi si è macchiato di crimini di guerra tra le fila dell’esercito ucraino è legata alla cittadinanza europea o americana delle vittime. Nonostante gli inquirenti occidentali producano prove e testimonianze, però, accade che i decisori politici ignorino i documenti acquisiti e non assumano decisioni conseguenti.

Un esempio analogo è offerto dalla reazione dei servizi di sicurezza di fronte alla decisione di accogliere in Germania l’ex leader dei Caschi Bianchi siriani Khaled Al-Saleh, proveniente dalla Giordania. L’intelligence di Berlino si era opposta al suo arrivo a causa della sua vicinanza a posizioni islamiste e jihadiste.

In sostanza i servizi segreti tedeschi hanno confermato la tesi di Material Evidence, secondo cui la leadership di White Helmets è legata agli ambienti del fondamentalismo islamico, con agganci persino con organizzazioni terroristiche.

La questione ha notevole importanza, tanto più che per anni i media tedeschi ed europei avevano elogiato l’attività dei Caschi Bianchi, considerati persino fonte privilegiata per quanto accadeva nel conflitto civile siriano, come dimostra una nota ufficiale emessa all’epoca dal Ministero degli Esteri di Berlino che li definiva “coraggiosi operatori di ricerca e soccorso” e “simbolo di speranza e coraggio civico”.

Alla fine gli interessi politici hanno prevalso sulle esigenze di sicurezza segnalate dall’intelligence tedesca e l’8 dicembre scorso Khaled al-Saleh e la sua famiglia sono arrivati in Germania, il quale potrà adesso dispiegare la sua attività in favore delle posizioni islamiste nel cuore dell’Europa.

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Ambasciatore Usa: la nuova mappa del Marocco include il Sahara

E’ la nuova mappa adottata dagli Stati Uniti

Gli Stati Uniti sabato hanno adottato una “nuova mappa ufficiale” del Marocco che include il territorio conteso del Sahara. Lo ha annunciato l’ambasciatore Usa a Rabat, David Fischer.

“Questa mappa è una rappresentazione tangibile dell’audace proclamazione del presidente Donald Trump che riconosce la sovranità del Marocco sul Sahara occidentale”, ha detto l’ambasciatore Fischer parlando ai giornalisti.

Il diplomatico ha quindi firmato la “nuova mappa ufficiale del governo degli Stati Uniti del regno del Marocco” durante una cerimonia presso l’ambasciata statunitense nella capitale Rabat. La mappa sarà presentata al re del Marocco Mohammed VI, ha aggiunto.

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Trump riconosce la legittimità del Marocco sul Sahara

L’annuncio è stato dato dalla Casa reale di Rabat

Il Marocco ha confermato l’annuncio diffuso dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, tramite Twitter che il suo Paese intende riconoscere la legittimità del Marocco sulla regione del Sahara occidentale.

Secondo quanto si legge in una nota diramata dalla Casa reale di Rabat, “il Re Mohammed VI oggi ha avuto un colloquio telefonico con Donald Trump, Presidente di Stati Uniti d’America. Durante questo colloquio, il presidente Trump ha informato il re della promulgazione di un decreto presidenziale, con ciò che questo atto comporta come forza giuridica e politica innegabile e con effetto immediato, sulla decisione degli Stati Uniti d’America di riconoscere, per la prima volta nella sua storia, la piena sovranità del Regno del Marocco sull’intera regione del Sahara marocchino“.

Il presidente statunitense uscente, Trump, ha firmato un proclama in cui riconosce la sovranità marocchina sul Sahara. Ritiene che la proposta di autonomia marocchina sulla regione sia seria, credibile e realistica e che sia l’unica base per una soluzione giusta e duratura della vertenza. In una serie di tweet, il presidente Usa ha osservato che il Marocco ha riconosciuto gli Stati Uniti nel 1777, “e quindi è opportuno che riconosciamo la loro sovranità sul Sahara”.

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Fine della detenzione libica per i russi Shugaley e Sueifan

I sociologi russi erano detenuti nel carcere libico di Mitiga

Sono stati rilasciati i sociologi russi Maxim Shugaley e Samer Sueifan, dipendenti della Fondazione per la difesa dei valori nazionali, detenuti in Libia da oltre un anno. Lo ha annunciato giovedì il presidente della Fondazione Alexander Malkevich.

La notizia, secondo quanto riportato dai media russi, è stata confermata dal vice ministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov, rappresentante speciale del presidente russo per il Medio Oriente. Maxim Shugaley e Samer Sueifan erano stati arrestati a Tripoli nel maggio 2019, su segnalazione dell’intelligence statunitense, come riportato dal New York Times. I cittadini russi erano detenuti da 573 giorni nella prigione di Mitiga, sotto il controllo del gruppo radicale salafita RADA, vicino a Fathi Bashagha, il ministro dell’Interno del Governo di Accordo Nazionale (GNA) libico.

Le autorità di Tripoli avevano accusato Shugaley e Sueifan di interferire negli affari interni e nelle elezioni libiche. Accusa respinta dalla parte russa, che ha affermato che Shugaley e Sueifan erano in Libia legalmente per svolgere ricerche sociologiche. Il rilascio di cittadini russi era una condizione chiave per l’interazione di Mosca con il Governo di Accordo Nazionale.

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Così Tripoli finisce nelle mani dei fondamentalisti islamici

Negli ultimi giorni sono giunte numerose segnalazioni circa un insolito attivismo da parte del gruppo islamista radicale RADA (Special Deterrence Forces). Diversi profili di utenti libici di Twitter hanno riferito che “per ordine del terrorista Abdul Rauf Kara, le Special Deterrence Forces hanno istituito diversi checkpoint a Tripoli”. Molti in Libia ritengono che Kara stia pianificando un’iniziativa su vasta scala per tentare addirittura di assumere il potere nella capitale.

Sembra, tra l’altro, che la sera del 27 novembre un convoglio armato delle Special Deterrence Forces sia stato avvistato per le strade di Tripoli.

Nello stesso giorno, in città, sono stati segnalati scontri tra la milizia RADA e uomini della Brigata Al-Samud scaturiti da contenziosi di natura economica.

Lotta per il potere

Le manovre militari segnalate a Tripoli non hanno nulla a che fare con possibili minacce esterne. Dallo scorso agosto, infatti, vige in Libia il cessate il fuoco. Le truppe del generale Khalifa Haftar, comandante dell’Esercito Nazionale Libico (LNA), non hanno intrapreso alcuna nuova offensiva contro la Tripolitania. Questi movimenti e gli scontri armati si spiegano solo supponendo che nella capitale stia prendendo il via una nuova lotta per il potere e per l’accaparramento delle risorse finanziarie tra le varie milizie che vi operano.

All’inizio di novembre si è tenuto a Tunisi, sotto l’egida delle Nazioni Unite, il Libyan Political Dialog Forum (LPDF), allo scopo di costituire un nuovo governo di transizione. Sebbene il Forum non sia riuscito a individuare una nuova leadership e non sia stato in grado di definire nemmeno le candidature degli aspiranti alle cariche di ministro, di primo ministro e di membro del Consiglio Presidenziale, il negoziato continua in formato virtuale. Ciò significa che la scelta dei componenti del governo che dovrà portare il paese alle elezioni (che dovrebbero tenersi l’anno prossimo) è ancora all’ordine del giorno.

Uno dei principali aspiranti alla carica di premier è l’attuale ministro degli Interni del Governo di Accordo Nazionale (GNA) Fathi Bashagha. Questi è da poco rientrato dalla Francia: una tappa importante per la sua “campagna elettorale”, secondo gli esperti.

E mentre Bashagha volava a Parigi, i suoi sostenitori in Libia si davano un gran da fare: i 35 delegati al Forum che a Tunisi si erano espressi a favore della sua candidatura a primo ministro hanno recentemente proposto un sistema di voto da remoto tramite Zoom per superare l’impasse. Molti hanno criticato una simile procedura in quanto facilmente manipolabile.

Mettendo insieme i vari frammenti del mosaico, il quadro che emerge risulta piuttosto chiaro: da una parte l’attivismo delle milizie vicine al ministro degli Interni nella capitale, dall’altra gli sforzi di Bashagha per acquisire sostegno internazionale, infine i tentativi dei delegati al Forum suoi alleati di procedere al voto ad ogni costo; tutto lascia credere che a Tripoli si stiano intensificando gli sforzi per ottenere un cambio al vertice, se non, addirittura, per organizzare un colpo di Stato.

La minaccia terroristica

In questo contesto sono proprio le Forze Speciali di Deterrenza della RADA a svolgere un ruolo chiave. Esse potrebbero garantire a Bashagha il controllo di Tripoli qualora la popolazione o le altre milizie si rifiutassero di riconoscerlo quale nuovo leader del governo.

Si tratta di una unità tradizionalmente legata al ministro degli Interni del GNA, guidata, come già detto, dal famoso comandante islamista Abdul Rauf Kara. Attualmente, essa è uno dei gruppi armati più influenti di Tripoli.

Qualora Bashagha salisse al potere RADA finirebbe per diventare la milizia egemone della capitale, nonostante si tratti di un’organizzazione accusata di rapimenti, torture e veri e propri massacri di gruppi rivali.

Nonostante il suo legame ufficiale con il Ministero degli Interni del governo ufficialmente riconosciuto dall’ONU, RADA è anche accusata di traffico di esseri umani, contrabbando e terrorismo, nonché di aver utilizzato minori come bambini-soldato e di aver rapito decine di migranti africani per ottenerne il riscatto.

Il procuratore della Corte penale internazionale, Fatou Bensouda, ha dichiarato di continuare “a ricevere informazioni in merito ai gravi crimini” commessi nella prigione di Mitiga, nei pressi di Tripoli, controllata dalle Forze speciali di deterrenza, che la utilizzano “per detenere arbitrariamente civili in condizioni disumane, sottoponendoli anche a tortura”.

Nella stessa Tripoli si sono tenute proteste in piazza contro la detenzione illegale di prigionieri da parte del gruppo RADA. Ma il Ministero degli Interni del GNA continua a tacere. Ci sono, anzi, fotografie in cui Abdul Rauf Kara compare tra i partecipanti alle riunioni convocate al Ministero.

Tra i “successi” del gruppo vanno ricordati il rilascio ad agosto di un militante dell’ISIS (che in seguito a sterminato tutta la sua famiglia) e le accuse di aver sparato in modo indiscriminato contro manifestanti disarmati a Tripoli.

D’altronde i miliziani di Kara non riconoscono la Legislazione Internazionale sui Diritti Umani, avendo come loro principale obiettivo l’instaurazione della Sharia (secondo l’interpretazione salafita).

La vendetta islamista

L’ascesa al potere di Fathi Bashagha sarebbe un autentico trionfo per la RADA, che grazie al suo sostegno è già diventata in questi anni un’organizzazione estremamente ramificata.

Da forza radicata essenzialmente in Tripolitania, essa potrebbe divenire un’organizzazione fondamentalista islamica estesa su tutto il territorio nazionale.

Si tratta di un’eventualità che dovrebbe suscitare grande preoccupazione in Europa e particolarmente in Italia. Avere come vicino un paese guidato da esponenti dell’Islam radicale costituisce un pericolo, non solo perché la Libia potrebbe trasformarsi in una piattaforma logistica per il trasferimento di elementi radicali nel Vecchio Continente (cosa che in parte già avviene), ma anche perché essa eserciterebbe sulla popolazione immigrata un’influenza ideologica più intensa, in grado di aumentare la diffusione del fondamentalismo islamista. Senza contare il fatto che tutto questo produrrebbe una reazione degli altri gruppi armati presenti nel paese, facendolo ripiombare nella guerra civile.

Nel settembre 2018, ad esempio, l’influente predicatore salafita Majdy Haffala, con il sostegno del leader di RADA, ha emesso una fatwa, in virtù della quale la città di Tarhuna, in Tripolitania, è stata dichiarata “città di Kharigiti” (eretici), quindi “nemici dell’Islam”: è facile immaginare cosa potrebbe accadere se questi estremisti aumentassero ulteriormente il loro potere. La Libia sprofonderebbe in un caos generalizzato, divenendo terreno fertile per l’ISIS e altre organizzazioni terroristiche.

I gruppi salafiti sono attualmente osteggiati da tutte le altre fazioni libiche – tanto quelle vicine al GNA, quanto quelle legate all’LNA – ma con Bashagha premier potrebbero acquisire una posizione centrale, sia per la speciale vicinanza al ministro, sia perché questi senza l’appoggio di RADA non sarebbe in grado di controllare Tripoli. Infatti, allo stato, solo i gruppi armati di Misurata, tra quelli impegnati sul terreno, gli sono fedeli, a parte RADA.

Va, pertanto, scongiurata a tutti i costi una vittoria in Libia dell’Islam radicale, onde evitare che la minaccia terroristica contro l’Europa aumenti fino a raggiungere livelli incontrollabili.

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Il leader del movimento di opposizione armeno Adekvat: “Ci hanno pugnalato alle spalle”

Arthur Danielyan è il leader del movimento di opposizione armeno Adekvat. Ha servito come volontario nella guerra del Nagorno Karabakh. In un’intervista a FWM ha raccontato dei recenti disordini politici in Armenia e dell’accordo tra l’Armenia e l’Azerbaijan. Danielyan era stato precedentemente arrestato dalla polizia armena a causa della sua attività politica.

Danielyan, lei è stato arrestato dalla polizia il 14 novembre. Perché?

Sono accusato di incitamento alla violenza e uno dei miei post su Facebook è stato utilizzato a supporto di ciò. Nel post io ho fatto una semplice constatazione: chi adesso è al potere non vivrà a lungo a causa del tradimento compiuto per arrivarci. Questa era, ed è, la mia previsione riguardo ciò che avverrà in Armenia dopo la vergognosa sconfitta nella guerra contro la Turchia e l’Azerbaijan.

Quali sono le accusato mosse al suo movimento?

Negli ultimi due anni e mezzo siamo stati accusati di diffondere disinformazione e allarmismo. Tuttavia, quando è emerso che ogni allarme da noi lanciato si è rivelato fondato, l’accusa è stata cambiata: ora dicono che “diffondiamo odio”. La verità è che nella primavera del 2018 in Armenia ha avuto luogo un colpo di stato sponsorizzato da potenze straniere. Lo scopo del golpe era demolire le nostre istituzioni e dare il via a un’escalation militare. E’ successo e abbiamo perso. In realtà non abbiamo mai avuto la possibilità di contrattaccare: i nostri nemici erano, allo stesso tempo, di fronte a noi e tra di noi, fin nella nostra capitale.

Il governo armeno sta dando prova di grande nervosismo.

Finora sono riusciti a superare molteplici scandali e crisi. Anche il fatto che l’Armenia abbia combattuto durante l’epidemia di Coronavirus ha contribuito a non causare disordini politici principalmente perché l’opposizione si è svolta sui social. Questa situazione è fonte di grande nervosismo per i politici: temono che gli armeni smettano di credere alla propaganda dei media mainstream e scendano per le strade.

L’accordo di pace con l’Azerbaijan riguardante Arztakh (Nagorno Karabakh) per gli armeni rappresenta una sconfitta e il primo ministro Pashinyan è considerato il responsabile da molte persone. Cosa ha sbagliato?

Innanzitutto, non si tratta di una sconfitta ma di una resa. Ovviamente, Pashinyan è il principale responsabile, indipendentemente dalle azioni da lui effettivamente compiute. L’oltraggio più grande è che Pashinyan abbia continuamente operato affinché questa resa avesse luogo. Non appena è entrato in carica ha rinunciato a ogni singolo risultato ottenuto dall’Armenia durante i colloqui di pace nell’ambito del Gruppo OSCE di Minsk. Inoltre, ha implorato i favori di Aliyev in modo da consolidare la sua presa sull’Armenia, e quest’ultimo ha acconsentito a scapito dell’indebolimento delle nostre linee di difesa. Mentre era in carica, Pashinyan ha vanificato ogni tentativo messo in atto dalle istituzioni, politiche e civili, che erano intervenute. Una volta completata la distruzione interna, ha dato il via libera ad Aliyev per attaccare, ponendo fine al processo di negoziazione per la  pace.

Inoltre, durante i combattimenti ha trattenuto truppe e munizioni lontani dalla linea del fronte e ha continuato a diffondere disinformazione al fine di impedire alla gente di prendere posizione. Infine, ha rifiutato ogni singola offerta di mediazione da Mosca che avrebbe potuto fermare la guerra in una fase molto precedente. In sostanza, ha aspettato fino al punto di non ritorno in modo che non ci fosse alternativa alla resa. Ogni singola affermazione che ho fatto finora è suffragata da numerose testimonianze.

Pashinyan è visto da molti anche come un “uomo di Soros” …

Beh, la maggioranza assoluta dei membri del suo team, in un modo o nell’altro, sono sponsorizzati da fondi affiliati a George Soros. Inoltre, la resa armena è stata a lungo propugnata proprio da lui. Soros stesso aveva invitato la comunità internazionale a supportare Erdogan e Aliyev a qualsiasi costo. Per tutto il tempo il disegno distruttivo dei “fedeli di Soros” vicini a Pashinyan è stato supportato da sforzi insidiosi e pervasivi.

Tu e molti dei tuoi compagni avete servito nella guerra contro l’Azerbaijan. Cosa hai visto?

Cosa può raccontare un soldato di una guerra che ha perso perché è stato pugnalato alle spalle? Il nostro popolo in questo momento prova un misto di sentimenti: ci sentiamo traditi, disillusi, infuriati e depressi. Non so nemmeno quando e come sarà possibile superare il trauma. Ci siamo uniti volontariamente alle forze armate sin dal primo giorno, ed eravamo pronti a morire per proteggere la nostra patria. Ora invidiamo quelli che sono morti: non dovranno convivere con l’esito vergognoso di questo tradimento.

Si dice che l’Azerbaijan abbia usato volontari estremisti e mercenari dalla Siria per le sue guerre, con l’aiuto turco. Cosa sai di questo?

Il fatto che estremisti e mercenari siano stati ampiamente utilizzati è indubbio. Abbiamo raccolto prove più che sufficienti dal fronte. Questi mercenari, tuttavia, sono una parte inscindibile degli eserciti moderni in stile occidentale, quindi non sarebbe corretto discuterne come separati dall’esercito regolare turco, che, per giunta, è un membro della NATO. Devo anche aggiungere che per quanto riguarda l’efficienza militare, il nostro problema principale era la tecnologia israeliana.

Cosa succederà ora in Armenia? Pashinyan e il suo governo hanno un futuro?

È ovvio che Pashinyan non ha intenzione di assumersi alcuna responsabilità di ciò che ha fatto. Afferma che non prenderà nemmeno in considerazione le dimissioni, anche se sarebbe un modo per riconciliare il Paese. Inoltre, provoca continuamente disordini e polarizzazioni sociali. Ciò in parte è dovuto al fatto che sa di stare combattendo non solo per il potere ma anche per la sua vita. Questo ovviamente sta lasciando un segno nella sua squadra: mentre parliamo numerosi alti funzionari si stanno dimettendo e, di fatto, stanno abbandonano Pashinyan come fosse una “nave che affonda”. Conoscendo i suoi metodi ricorrerà a misure repressive per mettere a tacere l’opposizione e si trasformerà rapidamente in un insensato dittatore totalitario, ma anche così non durerà a lungo.

Non è chiaro chi potrebbe essere un potenziale candidato per sostituire Pashinyan. Non sono nemmeno sicuro che al momento ci sia qualcuno che sarebbe disposto ad assumere un ruolo simile dal momento che il Paese è lacerato e distrutto politicamente, economicamente e, soprattutto, moralmente.

Qual è la tua visione per il futuro del tuo paese?

Il futuro è molto cupo. È imprevedibile. Siamo a un bivio in cui il nostro popolo deve scegliere se continuare a combattere e guadagnarsi il diritto ad essere sovrano oppure cedere e unirsi ai ranghi delle nazioni che hanno perso la loro eredità, statualità e dignità. Un fattore molto importante che deciderà il nostro futuro risiede nelle posizioni delle superpotenze globali: NATO, Russia, Cina e Iran dovranno fare i conti con la crescente influenza della Turchia nella nostra regione e su un palcoscenico globale.