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Marocco: la visita di Macron non è in programma

La visita del presidente della Francia Macron in Marocco, non è all’ordine del giorno né è prevista secondo fonti ufficiali del governo

La visita del presidente francese, Emmanuel Macron in Marocco “non è all’ordine del giorno e non è prevista”. Lo ha detto una fonte ufficiale del governo marocchino.

In un’intervista, il capo della diplomazia francese, Catherine Colonna, ha annunciato la programmazione di una visita del presidente Macron in Marocco. Che doveva essere su invito del re Mohammed VI.

Il Marocco ha però smentito la notizia. La fonte ufficiale del governo di Rabat è sorpresa che Colonna abbia preso “questa iniziativa unilaterale e si sia data la libertà di fare un annuncio non concertato riguardo ad un’importante scadenza bilaterale”.

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Arabia Saudita: dal 25 al 29/9 apre un villaggio a Roma

In occasione della festa nazionale del Regno e nell’ambito dei 90 anni di relazioni con l’Italia

L’Arabia Saudita aprirà la prossima settimana il suo villaggio nel centro di Roma. Presso Casina Valadier, nel cuore di Villa Borghese dal 25 al 29 settembre 2023 ti aspetta il Saudi Village. Un’occasione unica per immergersi nei colori, le tradizioni e i sapori dell’Arabia Saudita. L’ingresso è gratuito.

L’evento è stato pensato in occasione della festa nazionale del Regno e nell’ambito dei 90 anni di relazioni con l’Italia. Nulla a che fare quindi con l’avvicinarsi dell’appuntamento per l’assegnazione della sede di Expo 2030 che vede Roma e Riad candidati.

I cancelli di Casina Valadier, Piazza Bucarest, saranno aperti dal 25 al 29 settembre 2023 dalle 15.00 alle 23.00. Il 28 settembre 2023 invece dalle 10.00 alle 18.00. E’ prevista un’accoglienza indimenticabile. Il popolo saudita ha qualcosa di unico e distintivo in fatto di accoglienza, cordialità e ospitalità. Il Saudi Village è pronto ad accogliere gli ospiti e farli vivere un viaggio straordinario tra i paesaggi e la cultura dell’Arabia Saudita restando in città.

E’ previso un percorso per tutta la famiglia. Lungo il percorso, troverete un’area giochi dedicata ai bambini, e attività di intrattenimento per ogni fascia d’età. Potrete assistere a performance musicali, artistiche e agli eventi sul palco centrale.

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Marocco: Mohammed VI visita vittime terremoto

Il monarca nell’ospedale di Marrakech, ne bacia uno sulla testa e dona il sangue

Il Re del Marocco ha dimostrato solidarietà al suo Paese che conta le vittime di un potente terremoto.

Ha visitato infatti i feriti in un ospedale situato non lontano dall’epicentro e donando il suo sangue.

Il re Mohammed VI ha ispezionato l’ospedale che porta il suo nome nella città di Marrakech.

Si è informato sui servizi di recupero e sulle cure fornite ai feriti del terremoto di venerdì sera e sulla situazione dei sopravvissuti. Lo ha riferito l’agenzia di stampa ufficiale MAP.

Un video mostra il Re, le cui apparizioni pubbliche sono normalmente limitate a occasioni speciali, al capezzale di diversi pazienti. Chinato su un ragazzino per dargli un bacio sulla testa. E’ apparso anche accanto a un uomo più anziano.

Con una mossa a sorpresa, il monarca è stato visto seduto su una sedia, con il cappotto tolto, le bretelle scoperte e le maniche della camicia arrotolate, il braccio pronto a donare il sangue.

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Marocco: prime misure post terremoto

Mohammed VI lancia misure di emergenza per far fronte agli effetti del terremoto nella regione di Marrakech

Il re del Marocco, Mohammed VI, ha presieduto una sessione di lavoro presso il Palazzo Reale di Rabat. Erano presenti il capo del governo e i responsabili dei ministeri. Tutti preoccupati per le conseguenze del terremoto nella regione di Marrakech. Erano presenti anche i rappresentanti delle Forze Armate Reali, le autorità regionali e locali delle zone colpite. Quelli delle forze dell’ordine e le squadre della protezione civile per informarsi sulle misure adottate in seguito al sisma che ha causato finora la morte di oltre 1.300 persone.

Mohammed VI ha ordinato il dispiegamento di tutti i mezzi umani e materiali. Sia terrestri che aerei, necessari per la cura delle vittime e la ricerca dei sopravvissuti tra le macerie. Questo nonappena è stato registrato il terremoto e confermata l’entità dei danni subiti.

Il Marocco ha predisposto un importante dispositivo di assistenza in risposta al terribile terremoto che lo ha colpito.

Dopo una prima valutazione d’emergenza delle misure adottate, il Re ha chiesto di intensificare gli sforzi data l’entità del terremoto. E’ il più forte della storia del Marocco, di magnitudo 7 della scala Richter, che ha causato la morte di oltre 1.300 persone. Più di 1.800 feriti. Ha causato danni materiali in diverse città nella zona del disastro intorno a Marrakech.

Il Re Mohammed VI, accompagnato dal Principe ereditario Moulay El Hassan, ha presieduto nel pomeriggio di sabato 9 settembre 2023 presso il Palazzo Reale di Rabat, una sessione di lavoro.

I dipartimenti ministeriali interessati, si sono concentrati principalmente su:

Rafforzare le risorse e le squadre di ricerca e salvataggio per accelerare le operazioni di salvataggio ed evacuazione delle persone ferite; la fornitura di acqua potabile alle zone colpite; la distribuzione di kit alimentari, tende e coperte a beneficio delle vittime; la rapida ripresa dei servizi pubblici.

Si ricorda a questo proposito che, su istruzioni del Re Mohammed VI, Guida Suprema e Capo di Stato Maggiore Generale delle Forze armate reali, le FAR hanno dispiegato con urgenza importanti risorse umane e logistiche, aeree e terrestri, nonché moduli di intervento specializzati basato su squadre di ricerca e soccorso e un ospedale da campo medico-chirurgico.

In questo contesto, il Re ha dato istruzioni affinché prosegua tempestivamente le azioni di soccorso effettuate sul terreno, e al fine di:

Istituire immediatamente una commissione interministeriale incaricata di attuare, il più rapidamente possibile, un programma di riabilitazione di emergenza e di assistenza per la ricostruzione delle abitazioni distrutte nelle zone colpite dal disastro. Prendersi cura delle persone in difficoltà, in particolare degli orfani e delle persone vulnerabili.
Assistenza immediata a tutte le persone che si ritrovano senza casa a causa del terremoto, in particolare in termini di alloggio, cibo e tutti gli altri bisogni primari.

L’incoraggiamento degli operatori economici in vista di una rapida ripresa delle attività nelle aree interessate.
L’apertura di un conto speciale presso il Tesoro e la Banca Al Maghrib, al fine di ricevere contributi volontari di solidarietà da parte di cittadini e organizzazioni pubbliche e private. La piena mobilitazione della Fondazione Mohammed V per la Solidarietà, in tutte le sue componenti, per fornire sostegno e accompagnamento ai cittadini nelle zone colpite. La creazione di riserve e scorte di beni di prima necessità (medicinali, tende, letti, cibo, ecc.) in ciascuna regione del Regno per prepararsi a qualsiasi tipo di catastrofe.

È stato inoltre deciso un lutto nazionale di 3 giorni, con bandiere a mezz’asta su tutti gli edifici pubblici.

Il Re ha dato le istruzioni al Ministro degli Habous e degli Affari Islamici per l’esecuzione della preghiera degli assenti (Salat Al Ghaib) in tutte le moschee del Regno, per il resto per le anime degli assenti vittime.

Il Sovrano ha inoltre espresso i più sinceri ringraziamenti del Regno del Marocco ai tanti paesi fraterni e amici che hanno espresso la loro solidarietà al popolo marocchino. In questa difficile situazione e molti dei quali hanno espresso la loro disponibilità a fornire aiuto e assistenza in queste particolari circostanze.

Hanno preso parte a questa sessione di lavoro il Capo del Governo, Aziz Akhannouch, il Ministro degli Interni, Abdelouafi Laftit, il Ministro della Sanità e della Protezione Sociale, Khalid Ait Taleb, nonché il Tenente Generale, Mohammed Berrid. , Ispettore Generale delle FAR e Comandante della Zona Sud, Tenente Generale, Mohamed Haramou, Comandante della Gendarmeria Reale, Generale di brigata, Mohamed Elabbar, Ispettore del Servizio di Sanità Militare delle FAR, Colonnello Maggiore Ihssane Lotfi, Direttore Generale della Protezione Civile, Abdellatif Hammouchi, Direttore Generale della Sicurezza Nazionale, Direttore Generale della Sorveglianza Territoriale Nazionale, e Mohamed El Azami, coordinatore e membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Mohammed V per la Solidarietà”.

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Iran: arrivato nuovo ambasciatore saudita

Martedì 5 settembre è arrivato a Teheran il nuovo ambasciatore dell’Arabia Saudita in Iran, Abdullah bin Saud Al-Anazi

Il nuovo ambasciatore dell’Arabia Saudita in Iran, Abdullah bin Saud Al-Anazi, è arrivato martedì 5 settembre a Teheran per iniziare la sua missione. Lo ha riferito l’agenzia di stampa saudita “SPA”.

Al suo arrivo nella capitale iraniana, Al-Anazi ha affermato che le direttive della leadership saudita sottolineano l’importanza di rafforzare le relazioni. Per intensificare la comunicazione e gli incontri tra il Regno e l’Iran.

Ha aggiunto che l’Arabia Sudita cerca di spostare le relazioni tra i due paesi vicini verso orizzonti più ampi. Considerando che possiedono componenti economiche, risorse naturali e vantaggi che contribuiscono a migliorare gli aspetti di sviluppo, prosperità, stabilità e sicurezza nella regione e per il beneficio comune di i due paesi e i loro popoli.

L’ambasciatore ha sottolineato che la Visione 2030 del Regno rappresenta una tabella di marcia importante. Riflette tutti gli aspetti della cooperazione su cui è possibile costruire per migliorarla. Secondo una prospettiva strategica che stabilisce i principi di buon vicinato, comprensione, dialogo propositivo e rispetto per rafforzare la fiducia reciproca tra i due paesi.

L’Arabia Saudita e l’Iran hanno concordato a marzo di ristabilire le relazioni diplomatiche. Di riaprire le loro ambasciate dopo anni di tensioni tra i due paesi.

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Allarme diritti umani in Algeria: la denuncia di 15 ONG

In una dichiarazione congiunta per le missioni diplomatiche accreditate, l’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani (OHCHR) e le ONG con sede a Ginevra, 15 Organizzazioni non governative hanno presentato la situazione dei diritti umani in Algeria definendola «estremamente preoccupante». È successo al termine di una tavola rotonda tenutasi lunedì 14 novembre 2022 a Ginevra.

Durante l’Universal Periodic Review (UPR) dell’Algeria sulla situazione dei diritti umani, tenutosi l’11 novembre 2022 davanti al Consiglio dei diritti umani a Ginevra, la delegazione algerina guidata dal ministro della Giustizia, Abderrachid Tabi, ha fornito una falsa argomentazione rispetto agli impegni di cooperazione tra l’Algeria e gli organi delle Nazioni Unite.

Lo hanno notato 15 ONG durante un tavolo di confronto lunedì 14 novembre 2022 a Ginevra. Al tavolo hanno preso parte esperti di migrazione, accademici e difensori dei diritti umani delle province meridionali, della Svizzera, dell’Italia e della Spagna.

In questo frangente le carenze rispetto alla situazione dei diritti umani in Algeria sono state portate all’attenzione della comunità internazionale attraverso una dichiarazione congiunta destinata alle Missioni diplomatiche accreditate a Ginevra, all’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani (OHCHR) e alle ONG con sede a Ginevra.

Le affermazioni che l’Algeria cooperi in “buona fede” con i meccanismi delle Nazioni Unite e si sia dichiarata pronta a ricevere i mandatari per gli anni 2023 e 2024 sono false perché il Comitato contro la tortura (CAT) aveva deciso di sospendere il dialogo con l’Algeria a causa del sua rifiuto a collaborare.

Inoltre, diversi relatori speciali non hanno potuto visitare l’Algeria a causa di cancellazioni dell’ultimo minuto, in particolare il Gruppo di lavoro sulle sparizioni forzate o involontarie (GTDFI), che, da 20 anni, cerca di entrare in Algeria. In particolare la visita del Relatore speciale sulla libertà di riunione pacifica è stata annullata con il pretesto delle restrizioni sanitarie legate al Covid 19.

Per quanto riguarda la lotta al terrorismo, il ministro della Giustizia algerino ha affermato che non vi è contraddizione tra la normativa nazionale e internazionale in materia , e che la definizione di terrorismo rientrava nella discrezionalità dello Stato.

Per quanto riguarda i procedimenti legali contro attivisti, giornalisti, influencer e difensori dei diritti umani, il ministro algerino ha affermato che i procedimenti giudiziari sono molto rari e conformi al codice penale e che la giustizia, essendo indipendente, prende le decisioni appropriate, conclude il comunicato congiunto.

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Sanzioni ad Haftar e ad al Tamini per riconciliare la Libia

Modern Diplomacy, autorevole intervista di respiro internazionale, ha recentemente pubblicato un articolo dal titolo “Perché è necessario aumentare la pressione su Haftar?”

Secondo gli autori, il generale Khalifa Haftar, uno dei più importanti leader militari della Libia, è attualmente il principale ostacolo al processo di pacificazione. Il ragionamento fa leva su di una circostanza molto precisa, ovvero l’accusa di corruzione e crimini di guerra che pende sulla sua testa.

“Sebbene Haftar sia stato ufficialmente nominato comandante dell’Esercito Nazionale Libico dal presidente della Camera dei Rappresentanti (cosiddetto Parlamento di Tobruk), Aguila Saleh, da diverso tempo ha smesso di obbedire ai suoi ordini, preferendo perseguire un propria linea di condotta, spesso in contraddizione con gli accordi raggiunti tra l’est e l’ovest del paese. La riprova più eclatante di quanto affermato e dell’atteggiamento aggressivo e indisponibile ai compromessi di Haftar resta l’offensiva lanciata nel 2019 contro Tripoli. Le sue ambizioni politiche sono tra le principali cause del prolungarsi del conflitto in Libia”. Così su Modern Diplomacy.

Quale potrà essere il futuro è nuovamente diventato un tema di grande attualità. Le gravi tensioni che viva in questa fase l’Europa orientale sollevano preoccupazioni e rischiano di compromettere l’approvvigionamenti energetico del Vecchio Continente.

Di conseguenza i paesi mediterranei fornitori di gas, Algeria e Libia, stanno assumendo un’importanza sempre più decisiva per l’Europa. Ma mentre l’Algeria presenta un quadro politico sostanzialmente stabile, l’ormai decennale guerra civile in cui versa la Libia ha reso insicure le forniture di gas che da questo paese, attraverso il Greenstream, giungono in Italia.

Stabilizzare la Libia è diventato, quindi, un obiettivo improcrastinabile per l’Europa, ma l’UE sembra avere scarsi strumenti per influenzare la situazione. Lo stesso Haftar, principale elemento di destabilizzazione, appare insensibile alle sollecitazioni di Bruxelles.

Per risolvere questa difficoltà, l’unica strada perseguibile è gravare Haftar, il suo braccio destro il generale Kheiri al Tamimi e il loro entourage con sanzioni economiche personali. Gli Stati Uniti lo stanno già facendo. Nel 2020, infatti, il Dipartimento del Tesoro americano ha imposto sanzioni economiche contro Haftar, bloccando fondi, merci e servizi destinati a lui e ai suoi alleati.

https://www.forbes.com/sites/arielcohen/2022/02/11/political-risks-and-hobbesian-warfare-complicate-libyan-gas-supply-for-europe/?sh=15109b583738

Non solo. In questi giorni i tribunali USA si apprestano a processare Haftar per crimini di guerra e, siccome lui e i suoi figli sono cittadini americani e dispongono ancora di proprietà e legami commerciali negli Stati Uniti, Washington è in condizione di utilizzare tutto questo come strumento di pressione per condizionarne i comportamenti.

La timidezza dei paesi UE nei confronti di Haftar appare a questo punto inspiegabile, a meno di inconfessabili legami d’affari esistenti con lui e i suoi collaboratori più stretti. Le circostanze però, a questo punto, impongono un’accelerazione in questa direzione, per non trovarsi spiazzati dall’iniziativa messa in campo dagli Stati Uniti.

Per il mantenimento del suo potere soprattutto militare, Haftar dipende dalle esportazioni illegali di petrolio, venduto attraverso varie società di intermediazione con sede legale negli Emirati Arabi Uniti. Proprio per questa ragione Haftar è poco propenso a favorire un processo di pacificazione della Libia volto al ripristino della integrità territoriale e statale del paese. Ciò, infatti, lo priverebbe delle sue principali fonti di reddito.

E’ interessante notare come Washington, tra le varie sanzioni, non ne abbia imposte alcune specifiche sul commercio di petrolio. Potrebbe farlo l’Unione Europea. Sarebbe l’unico modo per costringere “la volpe del deserto” a favorire il processo di riconciliazione nazionale in Libia.

Vincenzo Mollo

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Mali: manifestazioni anti-sanzioni in Africa, Europa e Nord America

Nel corso della giornata di ieri hanno avuto luogo in Mali e in diversi paesi dell’Africa occidentale e centrale numerose manifestazioni contro le sanzioni imposte il 10 gennaio scorso ai danni del Mali dalla Comunità dei Paesi dell’Africa Occidentale (Cedeao). Migranti maliani hanno organizzato raduni dinanzi alle ambasciate anche in vari paesi europei e in Nord America. La manifestazione principale ha avuto luogo a Bamako, capitale del Mali, dove migliaia di persone sono scese in piazza contro le sanzioni per la seconda volta dopo la grande mobilitazione del 14 gennaio.

Lo scorso 9 gennaio la Cedeao ha imposto sanzioni ai danni del Mali dopo la decisione della giunta militare di prolungare di cinque anni la durata del governo di transizione e di rinviare le elezioni per il rischio di attacchi terroristici. Le organizzazioni pan-africaniste che hanno dato vita alle proteste in Senegal, Camerun, Niger, Nigeria e Guinea, accusano la Francia e i suoi alleati di aver istigato la Cedeao ad assumere tale decisione e hanno chiesto ai loro governi di ritirare le sanzioni.

I governi di alcuni paesi africani, come il Benin, hanno vietato le manifestazioni, mentre in Burkina Faso centinaia di manifestanti pro-Mali hanno cercato di erigere barricate nel centro della capitale Ouagadougou e si sono scontrati con la polizia che ha usato i gas lacrimogeni. Dimostrazioni di elementi della diaspora maliana hanno avuto luogo in varie città della Francia e a Parigi, davanti all’ambasciata del Mali, così come in Germania, Regno Unito, Spagna, Italia, Belgio, Guyana, Stati Uniti e Canada. Proprio ieri un militare francese, il brigadiere Alexandre Martin, è morto in Mali nel corso di un attacco alla base operativa avanzata di Gao, colpita dal tiro di mortai da parte di forze ostili alla coalizione internazionale a guida francese, che opera in Sahel nell’ambito dell’Operazione Barkhane.

“Se siamo arrivati a questo punto della crisi è soprattutto colpa della Francia che in questi anni coi suoi militari si preoccupa di difendere i propri interessi geostrategici nell’area anziché difendere i civili e ripristinare la stabilità. Gli attacchi jihadisti si sono intensificati e la zona è sotto il controllo del governatore ed è sotto grande pressione”, aveva affermato Patricia Bayoro, presidente della Comunità della Diaspora Africana in Italia (Codai) in un’intervista ad Africa Rivista, alla vigilia della manifestazione in Italia.

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Sudan: nuova bomba migratoria per l’Europa

Pur privo di confini terrestri o marittimi con paesi dell’Unione Europea, il Sudan potrebbe presto diventare una nuova fonte di flussi migratori diretti verso il Vecchio Continente. All’inizio di dicembre Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, vice presidente del Consiglio Sovrano di Transizione del Sudan ha dichiarato in un’intervista che l’Europa e gli Stati Uniti potrebbero essere presto interessati da una nuova ondata migratoria, qualora non sostenessero il nuovo regime militare da poco instauratosi nel paese.

“In virtù dell’impegno che abbiamo assunto con la comunità internazionale per ora stiamo ospitando queste persone sul nostro territorio – ha detto Hemeti, parlando in video-call da Khartoum – ma se il Sudan aprisse le proprie frontiere sarebbe un disastro per il mondo intero”.

Lo scorso ottobre i militari sudanesi hanno rovesciato il governo civile provvisorio e hanno assunto direttamente il potere, giustificando il colpo di Stato con la necessità di stabilizzare il paese. USA ed Unione Europea hanno condannato il golpe e per questo il governo sudanese sta ora valutando la possibilità di utilizzare i migranti come strumento di pressione.

L’Europa nuovamente sull’orlo del collasso

Mohamed Hamdan Dagalo e il governo sudanese sanno benissimo che l’Unione Europea su questo tema è particolarmente vulnerabile. E’ dal 2015, quando scoppiò la crisi migratoria dovuta al flusso di rifugiati provenienti dalla Siria, che l’Europa mostra tutta la sua debolezza su questo fronte: una debolezza ben sfruttata dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan che ha ripetutamente ricattato Bruxelles, minacciando di non trattenere sul suo territorio le masse di persone in fuga, ottenendo in questo modo ingenti risorse in cambio dell’accoglienza. Un esempio ripreso dal leader bielorusso Alexander Lukashenko, che recentemente ha cercato di alleggerire la pressione internazionale sul suo paese, strumentalizzando le decine di migliaia di migranti ammassati sul confine polacco con l’intenzione di varcare le frontiere dell’Unione.

Perché, dunque, non dovrebbe provare ad ottenere qualcosa dall’UE anche la giunta militare di un paese dove stazionano oltre un milione di migranti provenienti da altri paesi africani, devastato da guerre esterne e interne (come in Darfur), da tensioni sociali e la cui popolazione, in larga parte, non aspetta altro che di poter fuggire verso le coste europee? I cedimenti di Bruxelles ai vari ricatti che si sono susseguiti sul tema immigrazione, la rendono un facile bersaglio, considerando peraltro che il Sudan accoglie moltissimi rifugiati provenienti dall’Etiopia in guerra, che potrebbe facilmente dirottare in Europa attraverso la Libia.

Il problema libico

E’ evidente che se il Sudan consentisse il passaggio dei profughi verso la Libia, nessuno potrebbe fermarli ed essi si riverserebbero appena possibile sulle coste italiane.

La situazione in Libia è tale, oramai, che nessuno risulta essere in grado di garantire il controllo del territorio. Il paese nordafricano è diventato una piattaforma logistica ideale per il traffico di esseri umani.

Nel 2021sono stati circa 31.500 i migranti intercettati e rispediti in Libia, rispetto agli 11.900 dell’anno precedente, mentre, sempre nel 2020, circa 980 sono risultati morti o dispersi.

La situazione, di fatto, è ingestibile. Ogni qual volta gli uomini della missione Frontex tentano di fare qualcosa per arginare il flusso, magari negoziando con le milizie che controllano il territorio libico, immediatamente i media lanciano critiche feroci, evidenziando le condizioni disumane in cui versano i migranti trattenuti nei centri della Tripolitania. La tesi di fondo, spesso sottaciuta, talvolta enunciata esplicitamente, è che sarebbe meglio accogliere milioni di africani nell’UE, piuttosto che consentire ai banditi libici di ridurli in schiavitù. Un modo di ragionare che fa oggettivamente il gioco dei trafficanti di esseri umani.

L’alternativa agli scafisti è rappresentata dai voli diretti dalla Libia verso l’Europa organizzati sotto l’egida ONU.

Le stesse Nazioni Unite si oppongono anche ai respingimenti verso il Sudan dei migranti illegali che sono riusciti a varcare il confine libico.

Un tale approccio lancia un messaggio che conduce in un vicolo cieco, perché incoraggia la migrazione legale, col suo corollario di morti e di crimini, nonché di minacce geopolitiche, come quelle rivolte all’Europa dai militari sudanesi. Uscire dalla retorica dei liberal e dei tecnocrati dell’ONU e dell’UE è solo il primo passo necessario per rendere l’Europa meno vulnerabile.

Franco Degli Esposti

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Elezioni in Libia: chi può riunire il paese?

Il 24 novembre, l’Alta commissione nazionale elettorale libica ha annunciato la lista provvisoria dei candidati ammessi alle elezioni presidenziali: in tutto 73. La commissione ha respinto 25 candidature tra cui quella di Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi, il quale ha tuttavia presentato ricorso contro la decisione: a breve se ne saprà l’esito.

Teoricamente le elezioni alla carica di Presidente della Repubblica in Libia dovrebbero tenersi il 24 dicembre, mentre il mese successivo dovrebbero esserci quelle parlamentari. L’obiettivo è quello di definire il quadro politico e porre fine alle divisioni e alla guerra civile.

Il disastro libico

Dal 2011, ovvero da quando Muammar Gheddafi è stato rovesciato e ucciso, la Libia è in preda al caos. Una guerra civile di tutti contro tutti, con fazioni e milizie impegnate a combattersi in diverse parti del paese e signori della guerra pronti a cambiare alleanze in base alle convenienze del momento.

Inevitabilmente, con una situazione così instabile, le reti criminali e terroristiche hanno prosperato e continuano a prosperare. Non è un caso che fino a qualche anno fa in Libia fosse presente una delle roccaforti dell’ISIS. Ancora oggi cellule dello Stato Islamico continuano ad operare in territorio libico, così come gruppi terroristici e ribelli provenienti dal Ciad e dal Sudan.

Attraverso la Libia e le sue coste resta costantemente attiva una delle principali rotte attraverso cui i migranti illegali dall’Africa giungono in Europa, molti dei quali radicalizzatisi nei campi libici.

Secondo i funzionari del governo di Tripoli, numerosi combattenti dello Stato Islamico (IS) sono giunti nel Vecchio Continente attraverso la rotta del Mediterraneo centrale.

Il conflitto civile libico ha anche determinato problemi all’approvvigionamento petrolifero dell’Europa, che durante il 2020, al culmine dello scontro militare tra il Governo di Accordo Nazionale di Fayez al-Sarraj e il generale Khalifa Haftar, aveva conosciuto addirittura un blocco totale.

Ovviamente è l’Italia il paese che continua a subire le ripercussioni più gravi da questa situazione.

Sul fronte migratorio, ad esempio, il Viminale prevede che almeno 30.000 persone entreranno nel paese entro la fine del 2021. Nel corso di quest’anno l’afflusso di migranti in Italia si è praticamente triplicato rispetto a quello precedente.

Finora nessuno degli accordi stipulati tra il “governo” libico e l’Unione Europea o l’Italia finalizzati al contenimento dell’immigrazione ha davvero funzionato e questo perché le autorità di Tripoli restano ostaggio dei gruppi armati locali, diversi dei quali di matrice islamista, che controllano la città.

Gheddafi 2.0

Fino al 2011 Saif al-Islam era apparso come il più “liberale” tra i figli di Gheddafi, ma di fronte alle prime proteste contro il regime, inaspettatamente, aveva subito assunto una posizione molto dura contro i ribelli. Sin dall’inizio Saif aveva previsto che il rovesciamento del padre avrebbe portato il paese alla guerra civile, al crollo dei confini, alle migrazioni di massa e reso la Libia un rifugio sicuro per i gruppi terroristici.

“La Libia sarà distrutta – affermò – ci vorranno 40 anni per raggiungere un accordo su come gestire il paese, perché tutti vorranno diventare presidente o emiro e assumere il comando”.

La storia gli ha dato ragione. 

Oggi, nonostante sulla sua testa penda un mandato della Corte penale internazionale delle Nazioni Unite, Saif al-Islam ha deciso di avanzare la propria candidatura alla presidenza della Libia. Sulla carta è considerato, nonostante tutto, uno dei candidati più forti. Gli analisti occidentali ritengono che goda del sostegno di tre libici su quattro e che sia l’unica personalità davvero in grado di ricostruire l’unità del paese.

Saif non ha preso direttamente parte alla guerra civile, non ha partecipato al tracollo del paese che ha reso la Libia un immenso campo di battaglia. Molti gli riconoscono di essere stato l’unico a prevedere cosa sarebbe accaduto con il rovesciamento del padre.

La sua popolarità potrebbe consentirgli di ricostruire il sistema politico e istituzionale libico, mentre la sua notevole esperienza in ambito diplomatico, con ottime relazioni nei paesi europei, a cominciare dall’Italia, lo renderebbero un interlocutore affidabile. Naturalmente l’eventuale ritorno di un Gheddafi al vertice del paese viene percepito molto negativamente dagli Stati Uniti, che ne subirebbero un colpo di immagine: sarebbe la conferma che l’intervento NATO e la “rivoluzione” libica non furono altro che una inutile e futile aggressione ai danni di uno Stato sovrano e certificherebbe il definitivo fallimento del progetto “primavere arabe”. Insomma un danno di reputazione paragonabile a quello scaturito dal caotico ritiro dall’Afghanistan.

E’ assai probabile che l’ostilità statunitense abbia influito sulla decisione della commissione elettorale di respingere la candidatura di Gheddafi jr. Eppure, se anche il suo ricorso non andasse a buon fine, è indiscutibile che l’intero processo elettorale subirebbe una forte delegittimazione, considerando il consenso che riscuote in questo momento Saif non solo tra i libici in generale, ma soprattutto tra i militari.

Il Consiglio Supremo delle Tribù libiche ha già avvertito che l’esclusione di Saif al-Islam minerebbe il processo di riconciliazione nazionale, sostenendo inoltre che la sua esclusione è opera dei Fratelli Musulmani e degli “agenti del colonialismo”.

E’ evidente che l’erede di Gheddafi avrebbe bisogno di un sostegno esterno per rimanere in pista e fare fronte contro chi gli si oppone. In teoria questa circostanza potrebbe essere un’opportunità per diversi player internazionali, compresa l’Italia. Così come è chiaro che dovrebbe dimostrarsi in grado di acquisire l’alleanza e l’appoggio di altri candidati alla presidenza.

In ogni caso la sua esclusione potrebbe costituire l’ennesimo fattore di destabilizzazione per la Libia.

Altri contendenti

Ma, a parte Saif al-Islam Gheddafi, chi sono i principali candidati alla presidenza della Repubblica libica? Innanzitutto c’è il generale Khalifa Haftar, con un vasto consenso in Cirenaica e nella Libia orientale, che sotto il suo controllo sono riuscite a ripristinare un ordine sul territorio. Un successo che però si accompagna alla disfatta subita nel 2020, quando ha cercato di completare la conquista del paese attaccando la Tripolitania, mancando l’obiettivo a causa dell’intervento militare turco a sostegno del Governo di Accordo Nazionale.

Anche la candidatura di Haftar ha corso il rischio di essere respinta. Il procuratore militare di Tripoli, vicino all’attuale Governo di Unità Nazionale, ne aveva chiesto l’arresto per crimini di guerra, ma una sua esclusione avrebbe inevitabilmente scatenato la reazione delle sue milizie e il definitivo fallimento del processo elettorale. Seppure le elezioni si tenessero ugualmente l’est e il sud del paese non ne riconoscerebbero il risultato senza la partecipazione di Haftar. A quel punto le votazioni servirebbero solo a redistribuire quote di potere a Tripoli.

Meno popolari di Haftar e Saif, ma sostenuti da gruppi potenti sono, poi, l’ex ministro degli Interni Fathi Bashagha, il Presidente della Camera dei Rappresentanti (il Parlamento di Tobruk) Aguila Saleh Issa e l’ex vicepremier libico Ahmed Maitig. Anche l’attuale primo ministro del Governo di Unità Nazionale Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh ha presentato la sua candidatura.

Quest’ultimo ha subito pesanti accuse di clientelismo e corruzione finalizzate proprio a supportare le sue aspirazioni alla presidenza. Dbeibeh avrebbe distribuito generosamente fondi pubblici a destra e a manca per acquisire consenso: tra i provvedimenti più criticati, quello che prevede l’elargizione una tantum di oltre 8.000 dollari agli sposi novelli. Senza contare il fatto che la legge attuale vieta ai membri del Governo di Unità Nazionale di concorrere alla presidenza.

Insomma la legittimità della sua candidatura è a dir poco discutibile. Quella di Haftar, invece, sebbene sostenuta dall’est, si scontra con l’ostilità dei potenti capi delle milizie contro cui ha condotto la sua offensiva lo scorso anno: solo alleandosi con Saif al-Islam potrebbe aggirarla. In effetti, un ticket Haftar/Gheddafi jr. potrebbe essere la migliore soluzione per la Libia: insieme, i due uomini più popolari del paese (stando ai rilevamenti demoscopici degli analisti), potrebbero pacificarlo e ripristinare l’autorità dello Stato.

Un’ipotesi di scenario possibile, però, soltanto se la commissione elettorale li ammetterà entrambi alle consultazioni e se le milizie islamiste non interferiranno nelle elezioni. In caso contrario la deflagrazione del processo di riconciliazione nazionale sarebbe dietro l’angolo.

Inclusione e compromesso

È chiaro che la riconciliazione e la stabilizzazione in Libia, a cui anche l’Europa è interessata, possono essere raggiunte solo attraverso un compromesso che tenga insieme tutti i principali attori in gioco, ad esclusione dei gruppi maggiormente collusi con il radicalismo e il terrorismo.

Naturalmente anche le potenze straniere coinvolte nello scenario dovrebbero fare la loro parte. La domanda è se Parigi e Washington, i principali artefici dieci anni fa del collasso libico, possano effettivamente portare un contributo positivo; così come ci sono seri dubbi sull’atteggiamento di Ankara, che insiste nel voler mantenere proprie truppe nel territorio in base agli accordi stipulati nel 2019 con l’allora governo di Fayez al Sarraj: la verità è che la Turchia ha scarso interesse alla ricostruzione di una Libia sovrana e indipendente. Un interesse nutrito, al contrario, dai paesi vicini: Tunisia, Egitto, Algeria e, soprattutto, dall’Italia e condiviso da Mosca, che vedrebbe di buon grado una stabilizzazione del quadrante mediterraneo. Dipenderà soprattutto dall’impegno di questi paesi se il dialogo intra-libico, nelle prossime settimane, riuscirà ad evitare di approdare ad un punto morto.