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Africa: l’hub del narcotraffico diretto in Europa

Anche per colpa dell’Europa

Sono sempre più evidenti gli effetti negativi della presenza francese in Africa. Non soltanto le ex colonie di Parigi continuano ad essere dipendenti economicamente e finanziariamente dalla Francia, ma, ciò che è più grave, questa mostra serie difficoltà a garantire la sicurezza nella regione.

Una serie di fatti recenti, ad esempio, dimostrano come esista un legame diretto tra le crescenti minacce terroristiche in Africa e l’aumento dei volumi del traffico di stupefacenti (cocaina, eroina, metanfetamine, ecc) diretto, attraverso il continente nero, in Europa.

I legami tra droga e jihad

La presenza di truppe straniere in Africa non è riuscita a ridurre il numero di cellule terroristiche e fondamentaliste: al contrario, negli ultimi tempi il numero di attacchi è considerevolmente aumentato, soprattutto nell’area del Sahel. Nonostante una presenza militare sempre più consistente di paesi europei (soprattutto Francia e Gran Bretagna), Stati Uniti e organizzazioni internazionali, le insurrezioni di marca jihadista aumentano e i gruppi islamisti si sono notevolmente rafforzati.

In virtù del suo passato coloniale, la Francia continua ad essere uno degli attori principali dello scenario africano, ma la sua capacità di influenza va attenuandosi con il trascorrere del tempo. Se prima la presenza militare di Parigi era percepita come un fattore di stabilizzazione del contesto, con effetti persino positivi per le popolazioni, oggi l’armée viene vista esclusivamente come un’odiosa forza di occupazione.

Lo stesso concetto di Françafrique che un tempo legittimava l’egemonia francese in una logica di aiuto e protezione, è oggi al contrario sempre più inteso dall’opinione pubblica locale come un paradigma esclusivamente neo-coloniale. L’anarchia monta e con essa prosperano bande e cellule jihadiste sempre più incontrollabili.

Lo scorso 12 settembre in Mali dei banditi hanno aggredito impunemente alcuni camionisti marocchini mentre ad agosto un’organizzazione jihadista in Burkina Faso ha ucciso 47 persone (di cui 30 civili). Sono solo due esempi recenti, ma gli episodi analoghi si susseguono senza che le truppe straniere costituiscano un credibile deterrente.

In un contesto così instabile a prosperare non sono soltanto la violenza e il terrorismo, ma anche il business della droga. La condizione di arretratezza in cui versano le ex colonie francesi ha favorito il diffondersi della corruzione e del radicalismo, che trovano terreno fertile in un contesto con tassi altissimi di povertà e disoccupazione, dove i giovani quando non emigrano, finiscono facilmente per dedicarsi ad attività illegali e all’uso di sostanze stupefacenti. Allo stesso tempo è molto forte la contiguità tra gruppi terroristici e produttori di droga e narcotrafficanti.

Da tempo l’ONU ha lanciato l’allarme a proposito dell’aumento della produzione e del transito di sostanze illecite in Africa diretto verso l’Europa. Secondo gli esperti la situazione si è aggravata con la campagna militare francese del 2013, mentre i blocchi causati dalla pandemia di COVID-19 non hanno affatto ridotto l’attività dei trafficanti, che semmai l’hanno addirittura intensificata.

Le cifre del fenomeno

Secondo le statistiche delle Nazioni Unite, 275 milinioni di persone l’anno scorso hanno fatto uso di sostanze stupefacenti, il 22% in più rispetto al 2010.

L’ONU prevede che entro il 2030 il numero dei tossicodipendenti aumenterà di un ulteriore 11%, il 40% del quale sarà costituito da africani. Secondo gli analisti negli ultimi anni le reti di fornitori di cocaina in Europa sono diventate più efficienti e il numero di spedizioni è significativamente aumentato come dimostra un altro rapporto delle Nazioni Unite.

Alcune zone dell’Africa oltre ad essere aree di transito, a causa dell’abbondanza del prodotto disponibile, stanno diventando anche aree di consumo di cocaina: una parte di questa passa attraverso l’Africa occidentale e la costa atlantica, il resto viaggia verso il Nord Africa diretto verso il Mediterraneo.

Le rotte proibite dell’Africa

Sebbene stia intensificando la propria capacità produttiva, l’Africa, come detto, continua ad essere soprattutto una zona di transito in cui viene stoccata la droga proveniente dal Sud America in attesa di essere trasferita verso l’Europa, dove risiede il grosso dei consumatori finali. Le sostanze principali (come la cocaina) provengono da Colombia, Bolivia e Perù attraverso i porti di Brasile, Venezuela ed Ecuador.

Una parte consistente della merce proveniente dall’America Latina arriva in Senegal, Guinea, Guinea-Bissau e Costa d’Avorio prima di giungere a Bamako, nel Mali, dove viene presa in carico dagli islamisti locali, che a loro volta la rivendono ai narcotrafficanti del posto.

Come è possibile evincere dalle mappe elaborate dagli esperti dell’ONU, nel 2020, rispetto all’anno precedente, importanti sequestri di droga sono stati effettuati in nuovi paesi, tra cui Nigeria, Camerun, Angola, Zimbabwe e altri, segno che il raggio d’azione dei trafficanti si va allargando a macchia d’olio, mentre Conakry, la capitale della Guinea, continua ad essere uno dei santuari del narcotraffico del continente.

Una delle principali rotte di transito attraverso cui gli stupefacenti dall’Africa giungono in Europa è quella che passa per la Libia (e per l’Egitto), completamente in preda al caos dopo la fine del regime del colonnello Gheddafi. La Libia è stata una zona di transito per la droga sin dagli anni ’90, ma dopo il 2011 questo business è letteralmente esploso, perfettamente inquadrato nelle lotte di potere tra fazioni e clan rivali. Anche qui, come nel Sahel, lo stato di anarchia politica ha favorito l’ascesa di gruppi criminali, che gestiscono i carichi di droga provenienti dall’Algeria meridionale e dal Niger e li spediscono in Europa.

Ma non è solo la cocaina sudamericana ad affluire in Libia attraverso il Mali, anche l’eroina afghana batte gli stessi percorsi, con le città di Sebha e Ubari divenute ormai grandi centri logistici dei contrabbandieri del deserto diretti verso le coste libiche, che altri narcotrafficanti preferiscono invece raggiungere via mare costeggiando il Marocco e l’Algeria.

Dove sono le organizzazioni internazionali?

Di fronte a questi dati è inevitabile chiedersi cosa facciano le organizzazioni internazionali e per quali motivi il loro peacebuilding risulti del tutto inefficace. Uno degli obiettivi espliciti del progetto MINUSMA delle Nazioni Unite, per esempio, era proprio quello di stroncare il narcotraffico africano. Ma come evidenziato dagli autori del rapporto sul traffico di stupefacenti in Mali di The Global Initiative.

MINUSMA si è rivelato un fallimento. Inoltre lo stesso personale dell’organizzazione è stato ripetutamente accusato di legami con criminali e militanti islamisti.

Il vero problema è la vastità di interessi incofessabili collegati al business del droga, che spesso coinvolge anche politici e uomini d’affari apparentemente puliti. Oltre al traffico illegale, al contrabbando e alle molteplici zone grigie, ci sono numerose aziende farmaceutiche senza scrupoli dell’UE che utilizzano questi prodotti. Il caos politico favorisce, inoltre, l’ingerenza, anche economica, delle vecchie potenze coloniali, senza contare che quella stessa anarchia è il brodo di coltura ideale per le formazioni islamiste, sia per aggregare seguaci, sia soprattutto per finanziarsi attraverso attività e commerci illeciti.

La questione europea

In Europa le principali rotte del traffico di stupefacenti passano attraverso la Spagna, il Portogallo, il Belgio e i Paesi Bassi da dove poi la merce viene distribuita in tutta l’Unione Europea. Società fittizie e grossi pusher si occupano o di consegnarla  alle imprese farmaceutiche impegnate nella produzione di analgesici oppioidi o di venderla pura ai consumatori.

Gli Stati europei non sono in grado di risolvere il problema. Sono in troppi a beneficiare di questo sporco affare. D’altronde una parte rilevante del problema è rappresentata dall’approccio neocolonialista che paesi come Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti continuano ad avere nei confronti dell’Africa, depredando risorse e seminando conflitti e anarchia.

Nel giugno di quest’anno il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che le truppe francesi – circa 5.000 uomini- saranno ritirate dall’Africa e chiuse le basi militari nel Sahel. La decisione non sorprende: cresce nella regione un forte sentimento antifrancese, con un alto numero di proteste (in Senegal, Ciad, Mali, Niger, Mauritania ecc.) che chiedono il ritiro della missione militare.

Ordine e pace sono possibili in Africa soltanto se essa troverà partner disponibili a dialogare e ad operare su di un piano di parità e di reciprocità. Il continente cerca alternative e non è un caso se negli ultimi anni diversi Stati africani hanno avviato una forte cooperazione con la Cina (la “Nuova Via della Seta” assicura prestiti ed investimenti), la Russia (assistenza in funzione anti-jihadista, programmi energetici e di implementazione del settore agricolo) e altri. Le classi dirigenti africane dimostrano di essere consapevoli che solo uscendo dalla logica neocolonialista e sviluppando le proprie infrastrutture, potranno riprendere il controllo della situazione, attenuare disordine e illegalità, fornire una prospettiva diversa ai propri giovani, che non sia la tragica scelta tra povertà, violenza o emigrazione.

In ogni caso, il ritiro della Francia dall’Africa aprirà un vuoto che qualcuno cercherà di riempire. Se dovesse riempirlo la Turchia, che da tempo è coinvolta nel ricatto migratorio ai danni dell’Europa, sponsorizza i movimenti islamisti e tende a coprire il traffico di droga libico, i contraccolpi per i paesi del Vecchio Continente sarebbero tutt’altro che positivi.

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