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Ambasciatore Usa: la nuova mappa del Marocco include il Sahara

E’ la nuova mappa adottata dagli Stati Uniti

Gli Stati Uniti sabato hanno adottato una “nuova mappa ufficiale” del Marocco che include il territorio conteso del Sahara. Lo ha annunciato l’ambasciatore Usa a Rabat, David Fischer.

“Questa mappa è una rappresentazione tangibile dell’audace proclamazione del presidente Donald Trump che riconosce la sovranità del Marocco sul Sahara occidentale”, ha detto l’ambasciatore Fischer parlando ai giornalisti.

Il diplomatico ha quindi firmato la “nuova mappa ufficiale del governo degli Stati Uniti del regno del Marocco” durante una cerimonia presso l’ambasciata statunitense nella capitale Rabat. La mappa sarà presentata al re del Marocco Mohammed VI, ha aggiunto.

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Trump riconosce la legittimità del Marocco sul Sahara

L’annuncio è stato dato dalla Casa reale di Rabat

Il Marocco ha confermato l’annuncio diffuso dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, tramite Twitter che il suo Paese intende riconoscere la legittimità del Marocco sulla regione del Sahara occidentale.

Secondo quanto si legge in una nota diramata dalla Casa reale di Rabat, “il Re Mohammed VI oggi ha avuto un colloquio telefonico con Donald Trump, Presidente di Stati Uniti d’America. Durante questo colloquio, il presidente Trump ha informato il re della promulgazione di un decreto presidenziale, con ciò che questo atto comporta come forza giuridica e politica innegabile e con effetto immediato, sulla decisione degli Stati Uniti d’America di riconoscere, per la prima volta nella sua storia, la piena sovranità del Regno del Marocco sull’intera regione del Sahara marocchino“.

Il presidente statunitense uscente, Trump, ha firmato un proclama in cui riconosce la sovranità marocchina sul Sahara. Ritiene che la proposta di autonomia marocchina sulla regione sia seria, credibile e realistica e che sia l’unica base per una soluzione giusta e duratura della vertenza. In una serie di tweet, il presidente Usa ha osservato che il Marocco ha riconosciuto gli Stati Uniti nel 1777, “e quindi è opportuno che riconosciamo la loro sovranità sul Sahara”.

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Fine della detenzione libica per i russi Shugaley e Sueifan

I sociologi russi erano detenuti nel carcere libico di Mitiga

Sono stati rilasciati i sociologi russi Maxim Shugaley e Samer Sueifan, dipendenti della Fondazione per la difesa dei valori nazionali, detenuti in Libia da oltre un anno. Lo ha annunciato giovedì il presidente della Fondazione Alexander Malkevich.

La notizia, secondo quanto riportato dai media russi, è stata confermata dal vice ministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov, rappresentante speciale del presidente russo per il Medio Oriente. Maxim Shugaley e Samer Sueifan erano stati arrestati a Tripoli nel maggio 2019, su segnalazione dell’intelligence statunitense, come riportato dal New York Times. I cittadini russi erano detenuti da 573 giorni nella prigione di Mitiga, sotto il controllo del gruppo radicale salafita RADA, vicino a Fathi Bashagha, il ministro dell’Interno del Governo di Accordo Nazionale (GNA) libico.

Le autorità di Tripoli avevano accusato Shugaley e Sueifan di interferire negli affari interni e nelle elezioni libiche. Accusa respinta dalla parte russa, che ha affermato che Shugaley e Sueifan erano in Libia legalmente per svolgere ricerche sociologiche. Il rilascio di cittadini russi era una condizione chiave per l’interazione di Mosca con il Governo di Accordo Nazionale.

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Il leader del movimento di opposizione armeno Adekvat: “Ci hanno pugnalato alle spalle”

Arthur Danielyan è il leader del movimento di opposizione armeno Adekvat. Ha servito come volontario nella guerra del Nagorno Karabakh. In un’intervista a FWM ha raccontato dei recenti disordini politici in Armenia e dell’accordo tra l’Armenia e l’Azerbaijan. Danielyan era stato precedentemente arrestato dalla polizia armena a causa della sua attività politica.

Danielyan, lei è stato arrestato dalla polizia il 14 novembre. Perché?

Sono accusato di incitamento alla violenza e uno dei miei post su Facebook è stato utilizzato a supporto di ciò. Nel post io ho fatto una semplice constatazione: chi adesso è al potere non vivrà a lungo a causa del tradimento compiuto per arrivarci. Questa era, ed è, la mia previsione riguardo ciò che avverrà in Armenia dopo la vergognosa sconfitta nella guerra contro la Turchia e l’Azerbaijan.

Quali sono le accusato mosse al suo movimento?

Negli ultimi due anni e mezzo siamo stati accusati di diffondere disinformazione e allarmismo. Tuttavia, quando è emerso che ogni allarme da noi lanciato si è rivelato fondato, l’accusa è stata cambiata: ora dicono che “diffondiamo odio”. La verità è che nella primavera del 2018 in Armenia ha avuto luogo un colpo di stato sponsorizzato da potenze straniere. Lo scopo del golpe era demolire le nostre istituzioni e dare il via a un’escalation militare. E’ successo e abbiamo perso. In realtà non abbiamo mai avuto la possibilità di contrattaccare: i nostri nemici erano, allo stesso tempo, di fronte a noi e tra di noi, fin nella nostra capitale.

Il governo armeno sta dando prova di grande nervosismo.

Finora sono riusciti a superare molteplici scandali e crisi. Anche il fatto che l’Armenia abbia combattuto durante l’epidemia di Coronavirus ha contribuito a non causare disordini politici principalmente perché l’opposizione si è svolta sui social. Questa situazione è fonte di grande nervosismo per i politici: temono che gli armeni smettano di credere alla propaganda dei media mainstream e scendano per le strade.

L’accordo di pace con l’Azerbaijan riguardante Arztakh (Nagorno Karabakh) per gli armeni rappresenta una sconfitta e il primo ministro Pashinyan è considerato il responsabile da molte persone. Cosa ha sbagliato?

Innanzitutto, non si tratta di una sconfitta ma di una resa. Ovviamente, Pashinyan è il principale responsabile, indipendentemente dalle azioni da lui effettivamente compiute. L’oltraggio più grande è che Pashinyan abbia continuamente operato affinché questa resa avesse luogo. Non appena è entrato in carica ha rinunciato a ogni singolo risultato ottenuto dall’Armenia durante i colloqui di pace nell’ambito del Gruppo OSCE di Minsk. Inoltre, ha implorato i favori di Aliyev in modo da consolidare la sua presa sull’Armenia, e quest’ultimo ha acconsentito a scapito dell’indebolimento delle nostre linee di difesa. Mentre era in carica, Pashinyan ha vanificato ogni tentativo messo in atto dalle istituzioni, politiche e civili, che erano intervenute. Una volta completata la distruzione interna, ha dato il via libera ad Aliyev per attaccare, ponendo fine al processo di negoziazione per la  pace.

Inoltre, durante i combattimenti ha trattenuto truppe e munizioni lontani dalla linea del fronte e ha continuato a diffondere disinformazione al fine di impedire alla gente di prendere posizione. Infine, ha rifiutato ogni singola offerta di mediazione da Mosca che avrebbe potuto fermare la guerra in una fase molto precedente. In sostanza, ha aspettato fino al punto di non ritorno in modo che non ci fosse alternativa alla resa. Ogni singola affermazione che ho fatto finora è suffragata da numerose testimonianze.

Pashinyan è visto da molti anche come un “uomo di Soros” …

Beh, la maggioranza assoluta dei membri del suo team, in un modo o nell’altro, sono sponsorizzati da fondi affiliati a George Soros. Inoltre, la resa armena è stata a lungo propugnata proprio da lui. Soros stesso aveva invitato la comunità internazionale a supportare Erdogan e Aliyev a qualsiasi costo. Per tutto il tempo il disegno distruttivo dei “fedeli di Soros” vicini a Pashinyan è stato supportato da sforzi insidiosi e pervasivi.

Tu e molti dei tuoi compagni avete servito nella guerra contro l’Azerbaijan. Cosa hai visto?

Cosa può raccontare un soldato di una guerra che ha perso perché è stato pugnalato alle spalle? Il nostro popolo in questo momento prova un misto di sentimenti: ci sentiamo traditi, disillusi, infuriati e depressi. Non so nemmeno quando e come sarà possibile superare il trauma. Ci siamo uniti volontariamente alle forze armate sin dal primo giorno, ed eravamo pronti a morire per proteggere la nostra patria. Ora invidiamo quelli che sono morti: non dovranno convivere con l’esito vergognoso di questo tradimento.

Si dice che l’Azerbaijan abbia usato volontari estremisti e mercenari dalla Siria per le sue guerre, con l’aiuto turco. Cosa sai di questo?

Il fatto che estremisti e mercenari siano stati ampiamente utilizzati è indubbio. Abbiamo raccolto prove più che sufficienti dal fronte. Questi mercenari, tuttavia, sono una parte inscindibile degli eserciti moderni in stile occidentale, quindi non sarebbe corretto discuterne come separati dall’esercito regolare turco, che, per giunta, è un membro della NATO. Devo anche aggiungere che per quanto riguarda l’efficienza militare, il nostro problema principale era la tecnologia israeliana.

Cosa succederà ora in Armenia? Pashinyan e il suo governo hanno un futuro?

È ovvio che Pashinyan non ha intenzione di assumersi alcuna responsabilità di ciò che ha fatto. Afferma che non prenderà nemmeno in considerazione le dimissioni, anche se sarebbe un modo per riconciliare il Paese. Inoltre, provoca continuamente disordini e polarizzazioni sociali. Ciò in parte è dovuto al fatto che sa di stare combattendo non solo per il potere ma anche per la sua vita. Questo ovviamente sta lasciando un segno nella sua squadra: mentre parliamo numerosi alti funzionari si stanno dimettendo e, di fatto, stanno abbandonano Pashinyan come fosse una “nave che affonda”. Conoscendo i suoi metodi ricorrerà a misure repressive per mettere a tacere l’opposizione e si trasformerà rapidamente in un insensato dittatore totalitario, ma anche così non durerà a lungo.

Non è chiaro chi potrebbe essere un potenziale candidato per sostituire Pashinyan. Non sono nemmeno sicuro che al momento ci sia qualcuno che sarebbe disposto ad assumere un ruolo simile dal momento che il Paese è lacerato e distrutto politicamente, economicamente e, soprattutto, moralmente.

Qual è la tua visione per il futuro del tuo paese?

Il futuro è molto cupo. È imprevedibile. Siamo a un bivio in cui il nostro popolo deve scegliere se continuare a combattere e guadagnarsi il diritto ad essere sovrano oppure cedere e unirsi ai ranghi delle nazioni che hanno perso la loro eredità, statualità e dignità. Un fattore molto importante che deciderà il nostro futuro risiede nelle posizioni delle superpotenze globali: NATO, Russia, Cina e Iran dovranno fare i conti con la crescente influenza della Turchia nella nostra regione e su un palcoscenico globale.

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I Fratelli Musulmani e il fallimento del processo di riconciliazione in Libia

Le soluzioni preconfezionate dell’ONU insieme alle ambizioni degli islamisti stanno compromettendo il processo di pace

L’insoddisfazione dei libici

Il presidente del Council for International Relations in Libia, Adel Yassin, ha espresso forti perplessità nei confronti del meccanismo di voto adottato al Libyan Political Dialog Forum (LPDF) di Tunisi, sottolineando come la missione ONU abbia cercato di favorire l’organizzazione estremista dei Fratelli Musulmani, individuata come suo interlocutore privilegiato nello scenario libico.

 Secondo l’esperto, è quantomeno bizzarro che l’UNSMIL, guidata dal Rappresentante speciale ad interim per la Libia del Segretario generale ONU, Stephanie Williams, abbia deciso di coinvolgere nei negoziati la Fratellanza Musulmana, che in molti paesi del mondo arabo (e non solo) è considerata un’organizzazione estremista e persino terroristica.

Inoltre, l’esperto libico ha rilevato come almeno “due terzi dei partecipanti provenissero dall’organizzazione dei Fratelli Musulmani” (riprendendo un’accusa già sollevata in precedenza)e fossero impegnati a difendere gli interessi del Qatar e della Turchia.

Infine, Yassin ha accusato la missione Onu di portare avanti “un pericoloso gioco internazionale che spingerà la Libia nell’abisso”, col rischio di prolungarne la crisi, fino al punto di renderla simile a quella somala.

Nei giorni scorsi, vari esponenti politici libici avevano criticato l’LPDF. Hassan al-Saghir, ad esempio, ex sottosegretario agli Affari Esteri, ha accusato Stephanie Williams di aver invitato al Forum autentici criminali che avrebbero dovuto essere assicurati alla giustizia e non legittimati politicamente.

Anche 112 membri della Camera dei rappresentanti (il Parlamento di Tobruk) e diverse loro controparti di Tripoli avevano manifestato forti dubbi sul profilo di legalità di alcuni partecipanti al Forum di Tunisi.

Una maggioranza radicale

Anche prima del lancio dell’LPDF il 7 novembre, molte personalità libiche avevano espresso timori per la sproporzionata rappresentanza concessa ai Fratelli Musulmani in un’assemblea che si proponeva di dar vita a un governo di transizione accettabile da tutte le parti in conflitto

Mohamed al-Misbahi, capo  del Consiglio supremo degli sceicchi e dei notabili libici, aveva dichiarato come il Consiglio da lui presieduto respingesse “la frode ai danni del popolo libico di imporre l’agenda politica dei Fratelli Musulmani per la Libia attraverso la missione Onu”.

Su 75 partecipanti al forum 42 sono collegati in qualche modo con i Fratelli musulmani. Già solo questo potrebbe porre la parola fine ai lavori del Forum, la prima sessione del quale, come prevedibile, si è conclusa con un nulla di fatto: qualche generica dichiarazione e l’annuncio delle elezioni da tenersi il prossimo anno, senza tuttavia la formazione di un governo di transizione.

 Il Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Tripoli, riconosciuto dalle Nazioni Unite, guidato da Fayez Sarraj, è sostenuto dai Fratelli Musulmani, oltre che dal Qatar e dalla Turchia, considerati i principali sostenitori della Fratellanza sulla scena internazionale. Tuttavia, la Libia orientale e meridionale continuano ad essere controllate dall’Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar, nemico giurato dei Fratelli musulmani. Haftar è sostenuto da Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Francia, paesi che hanno più volte dichiarato di voler combattere “l’Islam politico”. Per Haftar, i suoi sostenitori in Libia e i suoi partner internazionali, la posizione predominante nell’LPDF riconosciuta alla Fratellanza è semplicemente inaccettabile, rendendo illegittime ai loro occhi le decisioni che vi potrebbero essere assunte.

I criteri di selezione dei partecipanti non hanno solo minato la fiducia di gran parte dei libici nel Forum, ma rischiano di screditare addirittura l’opera dell’ONU nel suo complesso, dal momento che sono stati i funzionari dell’ UNSMIL e Stephanie Williams in persona a sceglierne direttamente 49 su 75.

Il pericolo di una nuova escalation

Perché la Williams ha deciso di agire in questo modo? Molto probabilmente intendeva imporre ai libici soluzioni preconfezionate “per superare la crisi”. Tuttavia, né lei né l’UNSMIL sono riusciti a gestire i candidati teoricamente fedeli alla loro linea. Il forum di Tunisi è stato caratterizzato da intrighi di ogni tipo, compresi palesi tentativi di corruzione nei confronti dei delegati.

Proprio uno dei favoriti della Williams e tra i principali candidati alla carica di Primo Ministro ad interim – l’attuale ministro dell’Interno del GNA Fathi Bashagha – è sospettato di corruzione.

In passato, quando la Williams era stata incaricata d’affari degli Stati Uniti nel paese, Bashagha aveva lavorato a stretto contatto con lei, proponendole addirittura di ospitare una base militare statunitense in Libia.

È possibile a questo punto che gli americani continuino a sostenere l’ipotesi Bashagha come Primo Ministro del nuovo governo, utilizzando le Nazioni Unite e il format del Forum di dialogo politico libico. D’altronde anche le ambizioni del personaggio sono palesi.

Eppure, come osserva il Guardian, “Fathi Bashagha, che spera di diventare il primo ministro ad interim della Libia, è considerato dagli Emirati Arabi Uniti e dalle forze nell’est della Libia pienamente sotto l’influenza sia dei Fratelli Musulmani che della Turchia”.

Se Bashagha salisse al potere, esacerberebbe tutti i problemi sul tappeto. E’, infatti, accusato di crimini di guerra e di aver partecipato personalmente a torture.

Durante lo scorso agosto, dopo che unità del ministero dell’Interno avevano sparato sulla folla nel corso di una manifestazione a Tripoli, c’era stato un tentativo di rimuoverlo dall’incarico. Tuttavia, dopo una visita in Turchia, Bashagha è stato prontamente reintegrato.

Persino gli americani hanno dovuto ammettere che il ministero dell’Interno libico è implicato in rapporti inconfessabili con i trafficanti di esseri umani. Inoltre, è noto il fatto che Bashagha protegga i radicali del gruppo islamista Rada, accusato di essere autore di vari rapimenti a Tripoli.

Qualora Bashagha salisse al potere, è probabile che nel prossimo futuro debba affrontare Haftar sul campo di battaglia. Il feldmaresciallo è molto insoddisfatto dei risultati conseguiti attraverso il “processo di pace”. Lui ei suoi sostenitori, quando ad agosto hanno accettato la tregua, si aspettavano una soluzione di compromesso, non l’imposizione di un rappresentante radicale dei Fratelli Musulmani alla guida del governo “legittimo”.

Ma seppure Haftar si astenesse dall’azione militare, è molto probabile che nella stessa Tripoli scoppi un conflitto militare. L’influente Tripoli Protection Force si è già ripetutamente scontrata con gli uomini di Bashagha e lo ha apertamente contestato. Difficilmente potrebbe accettarlo alla guida dell’esecutivo, per cui Tripoli diverrebbe il campo di battaglia di una nuova guerra civile.

Uno scontro fratricida anche più grave dei precedenti in virtù del fatto che avverrebbe a conclusione di un processo che screditerebbe definitivamente l’UNSMIL e l’intera struttura delle Nazioni Unite agli occhi dei libici, che non ne riconoscerebbero più la terzietà.

C’è una via d’uscita da questa situazione? Il minimo indispensabile sarebbe una maggiore cautela nella scelta dei candidati a membri del nuovo governo, individuando figure di compromesso come il vice primo ministro del GNA Ahmad Maiteeq, considerato un tecnico neutrale. Sarebbe inoltre importante non imporre ai libici soluzioni preconfezionate. Ad essi dovrebbe essere possibile decidere del proprio destino senza pressioni esterne e, in questo senso, scegliere come luogo d’incontro una città della Libia, piuttosto che Tunisia, Marocco o Svizzera, verrebbe recepito come un segnale di fiducia, oltre a mettere i delegati maggiormente al riparo dall’influenza delle potenze straniere.

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Conflitto in Sahara: per l’Onu l’Algeria è parte del problema

L’Algeria è parte del conflitto in corso per la regione del Sahara essendo il principale sponsor del Polisario. E’ quanto stabilito dalla risoluzione 2548 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ha riaffermato la “consacrazione del processo delle tavole rotonde” e ha incoraggiato “la ripresa delle consultazioni tra il prossimo Inviato personale” del segretario generale Onu e le parti interessate e principali a questa disputa regionale, vale a dire il Marocco, l’Algeria, la Mauritania e il gruppo Polisario. In questo modo viene smentito quanto affermato dai rappresentanti di Algeri tramite interviste alla stampa. Questa l’analisi tacciata da The business globalist della situazione nella regione del Sahara.

Secondo i giornalisti del quotidiano online, i circa 65 militanti del Polisario che per 20 giorni hanno bloccato il traffico presso il valico di Guerguerat, tra Marocco e Mauritania, sono partiti e sono rientrati dai campi profughi di Tinduf che si trovano in Algeria. A conferma del fatto che si tratta di militari mascherati da civili, questi militanti hanno per prima cosa visitato la scuola militare del Polisario che in questi giorni sta reclutati i giovani diseredati del Sahara per attaccare il Marocco, considerato a livello internazionale bastione di stabilità nella regione.

La crisi di Guerguerat è scoppiata per una violazione del diritti internazionale da parte di chi ha bloccato il traffico commerciale tra Marocco e Mauritania colpendo in particolare l’economia dei paesi dell’Africa occidentale, come Senegal e Mali oltre che di Nouakchott, i quali importano i cibi freschi come verdura e frutta quasi unicamente dal Marocco. Nei giorni precedenti all’intervento pacifico del Marocco infatti i commercianti mauritani hanno protestato per la mancanza di rifornimenti nei mercati. E’ di questo infatti che il re del Marocco, Mohammed VI, ha discusso ieri in un colloquio telefonico con il presidente mauritano Ould el Ghazouani, il quale ha chiesto di rafforzare la cooperazione economica tra le parti. Il Marocco inoltre ha ben risposto alla crisi da Covid-19 mantenendo basso il livello dei contagi e avviando una campagna di vaccinazione avendo già acquistato le dosi di un vaccino prodotto da una società cinese.

Diversa è la situazione in Algeria dove non sono resi noti i dati ufficiali dei contagi e dove non è stato ancora approntato un piano di vaccinazione. E’ evidente che il crollo del prezzo del petrolio, il boom del fenomeno dei migranti clandestini che sbarcano sulle coste italiane e spagnole e le proteste del movimento Hirak, oltre il cattivo stato di salute del presidente algerino, Abdel Majid Tebboune, hanno contribuito ad una crisi dell’economia senza precedenti. Nel Sahara marocchino invece proseguono senza sosta gli investimenti economici al punto che sono 19 i consolati dei paesi arabi e africani ad aver aperto a Dakhla e Laayoune in vista dell’arrivo di nuovi investitori e progetti finanziari così come la Giordania ha annunciato l’arrivo dei suoi diplomatici dopo quelli degli Emirati Arabi Uniti. Il timore inoltre è che l’Algeria, in virtù della sua crisi economica, possa scegliere il conflitto armato nella regione. Non a caso la scorsa settimana ha testato un missile balistico di fabbricazione russa lanciando segnali che destabilizzano la regione.

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Il Libyan Political Dialogue Forum (LPDF) e i fallimenti di Stephanie Williams

Il Libyan Political Dialogue Forum (LPDF), iniziato a Tunisi il 9 novembre, va avanti da una settimana. L’iniziativa organizzata dalla Missione ONU in Libia (UNSMIL) e dal suo responsabile, il diplomatico americano Stephanie Williams, ha generato sin dall’inizio molte polemiche sui media.

L’obiettivo prefissato dagli organizzatori prevedeva che i 75 delegati provenienti dalla tre regioni storiche della Libia (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan) adottassero una road map che portasse alla definizione di un “quadro costituzionale”, all’istituzione di un Consiglio presidenziale e di un governo di transizione, alla convocazione di libere elezioni e, quindi, alla pacificazione del paese. Non sembra però che il Forum sia in grado di produrre risultati concreti.

Non a caso, secondo una fonte citata da Libya24.

La seduta del Forum tenutasi ieri, terminata senza che si sia trovato un accordo sui nomi dei candidati al Consiglio di presidenza e alle cariche del nuovo governo, sarà anche l’ultima del LPDF, sebbene i delegati si siano aggiornati al 15 dicembre.

Il Forum si è impantanato in lunghe discussioni e controversie e più volte si è corso il rischio di una rottura definitiva dei negoziati. Il politologo Muhammad al-Amami, in particolare, ha riferito a Erem News.

Che i delegati della Libia orientale hanno minacciato di abbandonare le trattative, quando nel corso del dibattito è emerso il veto alla candidatura di Aguila Saleh, il presidente del Parlamento di Tobruk, alla carica di capo del nuovo Consiglio presidenziale.

I media hanno anche riferito di tentativi di corruzione dei delegati.

La totale assenza di trasparenza sullo stato di avanzamento dei lavori del Forum, i tentativi di corruzione e gli sforzi da parte dell’UNSMIL volti a favorire la candidatura di esponenti di matrice islamista come Fathi Bashagha, il ministro degli Interni del Governo di Accordo Nazionale (GNA) – scelta ritenuta inaccettabile da oltre la metà delle fazioni libiche, ma appoggiata dalla Williams e dagli Stati Uniti – lasciano credere che il summit sia stato organizzato quanto meno in maniera frettolosa, come se gli organizzatori volessero dimostrare di essere in grado di giungere rapidamente a una svolta diplomatica a tutti i costi: un approccio inevitabilmente destinato al fallimento.

L’impressione è che si sia trattato soprattutto di un’operazione di facciata. Ma a che scopo?

Le ipotesi che è possibile formulare sono diverse. Innanzitutto sono in gioco le ambizioni personali della Williams, che finora non era stata in grado di produrre risultati significativi e può aver ritenuto che un’iniziativa clamorosa, e dotata di vasta eco mediatica, per quanto organizzata in modo superficiale, potesse in qualche modo ridarle credibilità.

Un modo, insomma, per legittimare in seno alle Nazioni Unite il proprio ruolo, magari cercando contestualmente di imporre un governo filoamericano in Libia, prescindendo dalla volontà delle fazioni locali.

E’ anche possibile, tuttavia, che l’UNSMIL e il suo capo missione stiano giocando una partita diversa, tesa a manipolare il processo di pace libico, con lo scopo di impedire che personalità estranee ai precedenti accordi intessuti tra ONU e GNA possano andare al potere.

Qualora assumessero posizioni di governo soggetti non coinvolti fino ad ora nelle trame libiche, costoro non solo potrebbero alterare una serie di equilibri e di accordi, ma avrebbero accesso anche a un’enorme quantità di informazioni e documenti che potrebbero confermare le accuse di quanti accusano gli attuali vertici del GNA di corruzione, spesso con il beneplacito dei burocrati delle Nazioni Unite.

Naturalmente l’UNSMIL e Stephanie Williams si affretteranno ora a presentare il LPDF come un successo, con il beneplacito del mainstream internazionale, ma un simile atteggiamento, allorchè sarà a tutti evidente il contrario, potrebbe portare a una completa perdita di fiducia nell’operato della Missione e nel ruolo complessivo dell’ONU.

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Nasce viziato da una logica neo-colonialista il Forum di dialogo per la pace in Libia

Ha preso il via oggi a Tunisi il Forum di dialogo per la pace in Libia. Il Forum è stato organizzato dalla Missione ONU in Libia (UNSMIL), guidata da Stefhanie Williams, l’ex incaricata d’affari degli Stati Uniti a Tripoli.

Al Forum prendono parte 75 personalità del paese nordafricano in rappresentanza di varie fazioni impegnate nel conflitto. La ripresa del processo negoziale e la decisione di dichiarare una tregua per i prossimi due mesi sembrerebbero un importante passo in avanti verso la pacificazione del paese e la sua riunificazione. Purtroppo appare alquanto improbabile che il Forum possa conseguire questi obiettivi: la regione sta nel metodo usato dall’UNSMIL e da Stephanie Williams per stabilire chi avrebbe preso parte al Forum, che di fatto ha esautorato i libici stessi da ogni decisione sul loro futuro.

Pesanti ingerenze americane

Sarà, infatti, proprio la Williams, e dunque gli Stati Uniti, a nominare personalmente chi occuperà le posizioni chiave della nuova leadership libica.

La Missione ONU, in qualità di organizzatore del Libyan Forum for Political Dialogue, ha stabilito quali saranno i requisiti in base ai quali saranno selezionati il nuovo premier libico, nonché il presidente del consiglio presidenziale e i suoi due vice.

Queste figure saranno decise dai 75 partecipanti al Forum. Ma come sono stati scelti costoro? Sono state individuati dall’UNSMIL. Dunque tutte le personalità sgradite a Stephanie Williams sono già state di fatto escluse dal processo di pace: un approccio poco inclusivo e rispettoso dell’autodeterminazione del popolo libico.

Non a caso la lista degli invitati ha già subito pesanti critiche da parte di numerose forze politiche del paese.

Queste hanno messo in discussione la loro legittimità. A farlo è stato innanzitutto il Consiglio degli sceicchi e dei notabili, espressione delle tribù, che hanno evidenziato come 45 dei 75 partecipanti al Forum risultino affiliati ai Fratelli Musulmani.

Ma c’è di più. Chiunque voglia essere candidato a una qualunque carica della nuova compagine governativa libica deve preventivamente ottenere il sostegno di almeno 10 delegati al Forum. Sebbene essi siano già stati preventivamente selezionati dalla stessa UNSMIL, questa dispone di un ulteriore strumento di controllo, in quanto solo la Missione ONU potrà stabilire se i candidati soddisfano pienamente i requisiti previsti per accedere alle cariche. I criteri previsti sono i più svariati, alcuni davvero vaghi e bizzarri: uno di essi, ad esempio, è “l’equilibrio psicologico”. In sostanza qualora un candidato venisse eletto dai partecipanti al Forum, ma non venisse ritenuto dotato del necessario “equilibrio psicologico” da parte dei funzionari UNSMIL verrebbe immediatamente dichiarato non eleggibile.

La discrezionalità della Missione ONU è dunque totale

Essa si è assunta, inoltre, il diritto di decidere in piena autonomia chi assumerà un certo incarico. Infatti, qualora nessun candidato ottenesse almeno il 75% dei voti dei partecipanti al Forum (dunque 57 su 75) l’esito dell’elezione sarà determinato dall’UNSMIL in base alle sue valutazioni.

Di fatto sarà l’UNSMIL (e dunque gli Stati Uniti che attraverso la Williams stanno gestendo l’intero processo) a stabilire come sarà composta la nuova leadership libica. Nessun candidato indipendente potrà avere chance di vittoria con un sistema così congegnato.

Non è soltanto l’assenza di democraticità di un simile metodo a destare profonde perplessità, ma anche la mortificazione della sovranità libica.

In questo modo gli USA tornano prepotentemente sulla scena nel paese nordafricano, estromettendo tutti gli altri attori esterni che finora avevano giocato un ruolo ed emarginando alcuni protagonisti del conflitto. Non soltanto Khalifa Haftar si vede escluso in questo momento dal processo di pace, ma anche soggetti come Turchia e Italia, che finora avevano sostenuto il Governo di Accordo Nazionale guidato da Fayez al-Sarraj e riconosciuto dall’ONU.

Dopo aver lasciato spazio di manovra in Libia a Russia, Francia, Qatar, Emirati Arabi, Turchia e Italia, gli USA intendono dunque stabilire una pesante influenza in Libia tramite l’UNSMIL e Stephanie Williams.

L’approccio si rivela però brutale, con pesanti venature neo-colonialiste, se non razziste. Ricorda molto da vicino i mandati della Società delle Nazioni successivi alla Prima Guerra Mondiale, allorchè le “illuminate” nazioni europee si assumevano “l’onere” di governare “popolazioni ancora non sufficientemente civilizzate”. Un approccio oggettivamente umiliante per gli arabi del XXI secolo.

Tutto questo accade mentre Joe Biden e Khamala Harris si apprestano ad occupare la Casa Bianca e artefici dell’intervento statunitense in Libia nel 2011 come Susan Rice e Michèle Flournoy nutrono serie speranze di diventare rispettivamente Segretario di Stato e Segretario alla Difesa USA.

Pace o guerra?

Cosa ci possiamo attendere da un simile, brutale atteggiamento. L’estromissione di fatto dei libici da qualunque processo decisionale difficilmente potrà portare a compimento un concreto processo di pace. Gli americani sembrano non aver saputo fare tesoro dell’esperienza del 2015, allorchè fu stipulato l’accordo di Skhirat che portò alla formazione del Governo di Accordo Nazionale.

Quell’accordo aveva basi assai più solide di quello che si va costruendo adesso, vi presero parte vari attori reali del conflitto inter-libico, eppure si è risolto in un fallimento completo, perché non si ritenne di coinvolgere le fazioni vicine al generale Haftar e all’Esercito Nazionale Libico. Tale circostanza ha portato ad esacerbare lo scontro tra Tripolitania e Cirenaica.

Il quadro tracciato dall’U(NSMIL appare ancora più fragile e in grado di far precipitare nuovamente la situazione. Il riaccendersi dello scontro sul campo potrebbe avere come effetto la giustificazione di un intervento militare diretto degli Stati Uniti, ma una simile circostanza genererebbe solo ulteriore caos nella regione.

E’ proprio ciò che prevede uno dei partecipanti al Libya Political Dialogue Forum, il parlamentare libico Misbah Douma Ouhida, che ha affermato:  “Questo forum produrrà un accordo che porterà la crisi libica la punto di partenza, aggravando le divisioni e generando ancora più confusione, la quale potrebbe protrarsi per diversi anni”.

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Nagorno-Karabakh: il legame con la guerra civile libica

C’è un filo rosso che collega il conflitto civile libico con la ripresa delle ostilità tra Armenia e Azerbaijan per il controllo del Nagorno-Karabakh.

Negli ultimi giorni alcune testate, anche italiane come Il Manifesto e Analisi Difesa, avevano riferito di trasferimenti di mercenari islamisti veterani della guerra civile in Siria, favoriti dalla Turchia, in Azerbaijan a sostegno delle truppe di Baku. Ne parla anche un articolo L’Occidentale ripreso in queste pagine.

Uno schema già attuato questa estate in Libia, dove Ankara avrebbe rifornito con uomini e mezzi il Governo di Accordo Nazionale (GNA) guidato da al-Sarraj e impegnato a rompere l’assedio imposto a Tripoli dal suo antagonista, il generale Khalifa Haftar, leader dell’Esercito nazionale libico (LNA).

Ma ci sarebbe di più.

Nel corso della notte del 30 settembre il Boeing 737 (5ADMG), di proprietà della compagnia libica Burak Air, dopo essere partito dall’aeroporto di Mitiga, nei pressi di Tripoli, è atterrato a Baku all’1.17, ora locale.

La notizia del volo è stata lanciata dal sito internet Flightradar24 ed è particolarmente interessante in quanto, ad oggi, non esistono voli di linea tra Baku e Tripoli. Inoltre, nei mesi scorsi, i media libici avevano più volte accusato la Burak Air di trasportare combattenti siriani in Libia attraverso la Turchia per dar man forte al GNA, senza tralasciare il fatto che nell’aeroporto di Mitiga è collegata anche una prigione controllata dalla milizia salafita RADA.

E’ dunque probabile che alcuni miliziani siano stati trasferiti in Azerbaijan con un volo di emergenza: è ciò che aveva affermato in un’intervista ad Al-Arabiya Khaled Mahjoub, ufficiale dell’LNA, in cui aveva parlato del riposizionamento di mercenari filo-turchi dalla Libia all’Azerbaijan.

Un’altra ipotesi è che possa essersi trattato del trasferimento di alcune attrezzature militari dalla Libia alla zona di guerra situata nel Caucaso meridionale.

L’Azerbaijan e l’Armenia hanno ripreso i combattimenti per il controllo del Nagorno-Karabakh il 27 settembre.

La Turchia ha dichiarato ufficialmente che sosterrà gli azeri. Le autorità armene accusano Ankara di fornire armi e combattenti provenienti dalla Siria all’Azerbaijan. Sempre secondo il Ministero della Difesa armeno, l’aviazione militare turca avrebbe abbattuto un aereo armeno Su-25 nella zona di guerra il giorno prima: un’accusa respinta da turchi e azeri.

Come detto in precedenza, le notizie sull’invio di combattenti provenienti dalla Siria sono state diffuse in numero consistente negli ultimi giorni. Due islamisti siriani hanno confermato, in un’intervista alla Reuters, l’invio di miliziani in Azerbaijan.

I primi indizi circa la presenza di miliziani siriani in Azerbaijan sono apparsi già il 27 settembre, quando ha cominciato a circolare sui social network turchi e azeri un video in cui mercenari siriani a bordo di furgoncini pick-up giravano per le strade di Baku.

Secondo l’analista Mzahem Alsaloum, ex portavoce di Operation Inherent Resolve, la coalizione internazionale a guida statunitense anti-Isis, i primi mercenari siriani sarebbero sbarcati in Azerbaijan circa dieci giorni fa per prendere parte alle operazioni militari già pianificate.

Ieri, invece, l’attivista per i diritti umani Elizabeth Tsurkov, citando fonti dell’Esercito Nazionale Siriano, ha dato notizia della morte dei primi combattenti siriani in Nagorno-Kharabakh.

Anche il ricercatore siriano Hussein Akoush ha riferito che un suo conoscente, il militante islamico Muhammad Shaalan, è stato recentemente ucciso in Azerbaijan.

Il filo rosso che lega Turchia, Siria, Azerbaijan e, presumibilmente, anche Libia, spinge a ritenere che la ripresa delle ostilità in Nagorno-Kharabakh vada inserita nella più ampia strategia turca volta a ridefinire gli assetti geopolitici medio-orientali e mediterranei e a rilanciare Ankara nel suo antico ruolo di potenza imperiale.

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Libia: proseguono le consultazioni tra GNA e Tobruk per il petrolio

Sul tavolo il riparto dei ricavi provenienti dalla vendita del petrolio

Secondo quanto riportato questa mattina dalla testata panaraba Al-Araby Al-Jadeed, che cita fonti vicine all’Esercito nazionale libico (LNA), proseguono positivamente le consultazioni tra i rappresentanti del Governo di Accordo Nazionale (GNA) della Libia e quelli del Parlamento di Tobruk volte a definire un bilancio nazionale unico relativo alle risorse derivanti dalla vendita di petrolio.

Era dal 2015 che le parti in conflitto non avviavano trattative su questo tema. L’obiettivo è definire un’equa ripartizione dei fondi, dopo lo sblocco della produzione e della commercializzazione del greggio libico. Tutte le parti in causa stanno predisponendo un bilancio delle spese previste per l’anno venturo, in attesa di definire con precisione come saranno ripartite le entrate. In una dichiarazione rilasciata alla stessa testata, il direttore dell’Oia Center for Economic Studies, Ahmed Aboulsen, ha spiegato che, in base alle leggi libiche, il 60% delle entrate petrolifere va destinato allo sviluppo del paese nel suo complesso, mentre il resto va ripartito tra le tre regioni che lo compongono (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan). I proventi derivati dalla vendita del petrolio rimarranno congelati fino a quando le parti non avranno raggiunto un accordo.

Gli osservatori economici ritengono che la ripresa della produzione petrolifera e gli sforzi volti ad unificare l’autorità monetaria e la spesa pubblica, rappresentino un passo nella giusta direzione, sia per rilanciare l’economia libica, sia per dare il via a un concreto processo di pacificazione nazionale. Il negoziato in corso è il frutto dell’intesa raggiunta dal vicepresidente del GNA Ahmed Maiteeq e il generale Khalifa Haftar che ha reso possibile il 18 settembre scorso la ripresa della produzione di petrolio dopo sette mesi di blocco.